RICORDI DEL MARE
(Uscita in mare aperto dopo un pernottamento all'ancora nel porticciolo di Portofino)
Il Cappone
Il mare, la natura, ma soprattutto l'amore per la pesca subacquea, anche se ero alle prime armi, nel periodo che va dal 1955 al 1965, un paio di volte l'anno, mi invogliavano a fare una puntata nelle isole del nostro arcipelago e la Capraia era la preferita.
Non si trattava di vere e proprie ferie, ma di scappate di qualche giorno in base agli orari che la nave in partenza da Livorno permetteva. All'epoca c'era una volta la settimana, e precisamente il venerdì mattina.
Anche in seguito, ai tempi che scorrazzavo con la barca a vela, questo mio desiderio l'ho sempre assecondato, o mentre mi dirigevo a S.Teresa di Gallura, costeggiando la Corsica, o viceversa nel rientrare in continente.
Quell'anno eravamo in tenda e ci sistemammo proprio in fondo all'insenatura del porto nei pressi di un piccolo ruscello nel quale, verso sera, riuscivamo anche ad agganciare con l'amo qualche piccolo muggine.
Per i pasti avevamo trovato una casa di pescatori proprio sul porto vicino al bar di Manlio e la padrona che era anche la cuoca, fu una vera sorpresa.
Avevamo optato per questa soluzione perché ritenevamo che la pensione, posta come era nella parte alta del paese, sarebbe stata troppo scomoda e inoltre ci avrebbe impegnato negli orari e noi volevamo essere liberi.
Avremmo potuto fare tappa dallo stesso Manlio, come in altre occasioni, ma il rischio era grosso: scorbutico come era, se un giorno gli veniva in mente di non darci niente da mangiare, erano cavoli nostri. Non era da escludere il rischio di andare a letto digiuni o alla migliore delle ipotesi con un semplice panino sullo stomaco, preparato dalla generosità di sua moglie.
Invece nella casa dove andammo, tutto sommato risultò una buona scelta e direi che fu una delle migliori permanenze che facemmo nell'isola. Eravamo in quattro: io, Ennio, mio fratello Aligi e Franco.
La padrona, appena arrivati, ci chiese se c'era qualche piatto che non gradivamo, così sapendolo avrebbe evitato di cucinarlo. Non ci furono eccezioni da parte di nessuno e solo io, facendomi coraggio, lasciai intendere che il brodo di pesce proprio non lo sopportavo.
( Crociera invernale lungo la riviera di levante )
Con pochi soldi affittammo una barchetta a remi e con quella andavamo a pescare sulla destra del porto, sotto ed oltre quella torretta di avvistamento mezza diroccata come se ne vede tante lungo le nostre coste e in particolare in quella occidentale della Corsica. Il pesce che prendevamo e che integrava, sin pure in minima parte, quello che portava il padrone di casa, veniva cucinato e mangiato; ma sinceramente, dopo due o tre giorni, cominciammo a pensare che tutto sommato, della carne o comunque qualsiasi altra cosa che non fosse pesce, sarebbe stata ben accetta.
Per questo motivo, quando ci fu comunicato il menù per il giorno successivo, fu un gran sollievo per noi tutti: brodo di cappone. Pensammo che se c'era brodo fatto con il cappone, senza ombra di dubbio, avremmo avuto come secondo un bel ruspante lesso, ragionamento che non faceva una grinza.
L'indomani, rientrando dal mare con il solito appetito, una volta in casa fummo accolti da un profumino niente male e senza porre tempo in mezzo, ci buttammo su quella zuppiera fumante che troneggiava nel bel mezzo della tavola.
Arrivò anche il secondo e quale non fu la nostra sorpresa nel vedere sul vassoio, un bel cappone lesso ... ma della famiglia dei pesci. C'era poco da equivocare, il brodo, che all'unanimità fu ritenuto così buono, era stato fatto con quel pesce e così automaticamente decadeva la mia pretesa incompatibilità con quel primo piatto.
Complici i miei amici, la cuoca aveva voluto mettermi alla prova e platealmente mi sconfessò, perché in effetti io ero assolutamente convinto si trattasse di brodo di carne.
In seguito, mi fu spiegato che il nome di cappone gli derivava proprio per questa particolarità. Io non lo sapevo, lo conoscevo solo per gli aculei che aveva sul dorso che, se disturbato, inalberava a novanta gradi; chi ne fosse stato colpito, non se lo sarebbe dimenticato tanto facilmente. Per questo motivo, ma anche per la poca soddisfazione che dava nel cacciarlo, non gli avevo mai sparato. Però da quel giorno, come ne vedevo uno, di solito immobile e ben mimetizzato sotto gli scogli, non me lo lasciavo sfuggire, pregustando certo la bontà delle sue carni ma in particolare l'ottimo brodo che ne sarebbe venuto, che tranquillamente poteva competere ad armi pari con il brodo fatto dal suo omonimo a due zampe. (seconda metà anni 5O.)
(Racconti senza ritorno-Ricordi del mare-1997-)
(La foto che mi rappresenta, è un dipinto del pittore Giuseppe Giannini)
Il periplo dell'isola
Anche quell'anno, eravamo il solito quartetto, come le giornate cominciarono a prolungarsi ed il sole a scaldare più del solito, un mattina prendemmo il treno per Livorno e una volta arrivati al porto Mediceo, ci imbarcammo per la Capraia dove arrivammo nella tarda mattinata.
Una volta che fu gettata l'ancora nella baia antistante il molo, si staccò una barca che in un paio di viaggi traghettò a terra tutti i passeggeri noi compresi, dato che a quei tempi, a causa del basso fondale, alle navi di una certa stazza, non era possibile avvicinarsi eccessivamente al molo.
(In attesa della barca atta a traghettarci nel porticciolo della Capraia nascosto dal promontorio a destra)
Da Manlio che aveva il negozio di alimentari proprio sul molo, ci facemmo fare dei panini mettendo così a tacere lo stomaco; poi di comune accordo, decidemmo che prima di intraprendere trattative per una camera e per i pasti serali, era meglio attendere un momento più propizio.
Non era una questione di soldi, ma la nostra sopravvivenza nell'isola dipendeva in gran parte da quel dialogo che avremmo avuto con lui. Era a suo modo un personaggio anche simpatico, ma quanto mai scorbutico e per questo andava preso con le molle. Poco importava se quattro persone gli avrebbero dato del guadagno per una camera da affittare e per qualche pasto serale. Era una seccatura e basta. Passi per la camera, ma il resto lo lasciava del tutto indifferenze. Dovevamo fare una sviolinata giusta, stando ben attenti a non fare stecche.
Invece quella volta tutto andò liscio come l'olio; prendemmo possesso della camera che aveva solo tre reti obbligandoci a integrare con un materassino gonfiabile il quarto posto letto e la successiva conta decise a chi ... l'onore di prenderne possesso. Unico aut-aut che ci fu imposto, il rispetto dell'orario se non volevamo saltare il pasto serale. Comunque memori di esperienze precedenti, convenimmo di arrivare sempre in anticipo.
Non è che la nostra permanenza in Capraia da una volta all'altra cambiasse di molto il tran-tran di tutti i giorni, sotto questo aspetto il nostro soggiorno poteva sembrare anche monotono; oltre il sole, il mare e qualche bella mangiata, il tutto annaffiato oltre che dal vino, dalle immancabili discussioni, non c'era altro, ma a noi andava bene così e già da qualche anno la si preferiva all'Elba che ormai ritenevamo troppo frequentata.
Trovammo da affittare una bella barchetta, una lancia, un poco pesante ma in compenso ben stabile e con quella potevamo allontanarci più del solito. Costeggiando in senso orario, prendemmo l'abitudine di andare a fare il bagno e pesca subacquea in una zona a sud dove, oltre la solita torre di avvistamento, c'era una bella insenatura e proprio di fronte un isolotto. Ci bastava pescare quel tanto per il gusto di cucinare e mangiare sul posto. La mattina, prima di partire, oltre il pane e qualche cosa da bere, portavamo solo l'occorrente per preparare il pesce.
Credo che il timore di fare una volta o l'altra un pasto a base di pane ed acqua ci stimolasse a tal punto che mai restammo a mani vuote e qualche cosa riuscivamo sempre a prendere: polpi, tordi, murene e in un tratto sabbioso anche qualche triglia.
I fucili a molla il più delle volte facevano cilecca, la nostra mira lasciava molto a desiderare e le fiocine spuntate sugli scogli non si contavano. Usavamo mascheroni con i quali anche volendo era impossibile compensare, ma non era il nostro caso, dato che all'epoca non sapevamo neppure cosa volesse dire, come pure la parola iperventilazione non ci diceva proprio niente. Andavamo giù fino a quando il dolore alle orecchie non diventava lancinante.
Eravamo proprio agli inizi e pure aggiungerei che avevamo una buona dose di incoscienza. Saranno gli anni a venire che ci permetteranno di fare questo sport con serietà, con un minimo di professionalità e nei limiti di sicurezza.
Dopo pranzo ognuno di noi cercava un posto fresco dietro uno scoglio e faceva un pisolino o leggeva qualche libro. Verso le sedici di nuovo partenza per il rientro ripercorrendo il tratto di mare della mattina. Ce la prendevamo calma bighellonando sotto costa ed a volte ci si fermava per cercare lassù in alto in cima alla scogliera, qualche rara capra selvatica.
Certo non mancavano gli argomenti per discutere, erano tutti buoni ed ognuno diceva la sua. Per quanto possa ricordare, mai proprio mai che una volta ci si fosse trovati d'accordo. Il chiodo fisso di Aligi era la nostra ostinazione, al momento di rientrare in porto, di fare sempre lo stesso percorso, quando, secondo lui, potevamo costeggiare l'altra parte dell'isola e avere l'opportunità di conoscere una nuova zona. Avvalorava il suo concetto dicendo "Il punto nel quale normalmente ci fermiamo tutte le mattine praticamente è a metà percorso, perché allora non proseguire e completare il giro dell'isola?"
Questa sua teoria anche se così a prima vista ovvia, per la verità lasciava perplessa la maggioranza, ma a forza di insistere, il quarto giorno ormai eravamo maturi al punto giusto per accettare la proposta che puntualmente arrivò al momento del rientro e prima ancora che avessimo messo i piedi a bordo della barca.
Palesemente soddisfatto mio fratello aggiunse "finalmente avremo l'opportunità di conoscere l'altra faccia dell'isola ..". Furono le ultime parole famose.
Ci mettemmo a vogare di buona lena e l'allegria, almeno per un paio d'ore, non venne meno. Eravamo interessati al paesaggio che ci appariva sulla destra e che ci eccitava anche per quel mistero che sempre danno i luoghi sconosciuti e selvaggi.
Non mancavano gli avvistamenti di qualche capra selvatica arrampicata tra i dirupi e che ogni volta dava a mio fratello il pretesto per rinfacciare il nostro spirito di contraddizione che a suo dire, ci aveva impedito di effettuare molto prima questa nuova esperienza.
Alla terza ora le cose cominciarono a cambiare; intanto tutti eravamo ben attenti a non stare ai remi un minuto di oltre il dovuto pretendendo il cambio tamburo battente. La fatica si faceva sentire e qualcuno cominciò ad essere più irascibile del solito.
La maretta sul fianco sinistro della barca non aiutava certo a miti pensieri e ogni promontorio che ci appariva a prua e che speravamo fosse proprio l'ultimo, oltre il quale poter scorgere le luci del porto, ci lasciava sempre più delusi.
Il tramonto giunse all'improvviso e in un batter d'occhio, così almeno mi parve, fummo avvolti nell'oscurità.
Ora remavamo a coppie ed il ritmo che era stato quello di una passeggiata, si fece frenetico.
Le parti si erano invertite; cominciarono le invettive per chi ci aveva spinto a questa sfacchinata e unici testimoni delle nostre imprecazioni erano i gabbiani che disturbati, a loro volta ci innervosivano ulteriormente con il loro stridio fastidioso. Una pila subacquea finché non fu scarica ci permise di vedere gli scogli più a ridosso, ma dopo fu proprio notte fonda e senza luna.
Non ci preoccupavamo più di sapere l'ora; chini sui remi davamo sfogo alla rabbia maledicendo la nostra dabbenaggine.
Doveva essere passata da poco la mezzanotte che, come Dio volle, apparvero alcune luci che ci fecero chiaramente intendere che quell'avventura stava per finire.
Entrando nel porto, notammo sul molo un certo movimento e alcune persone sembrava attendessero proprio noi perché, come ci videro attraccare, si avvicinarono.
Erano eccitate; parlavano tutte insieme con il risultato che non si riusciva a capire un bel niente e ci vollero alcuni minuti prima di renderci conto cosa effettivamente era successo.
Al tramonto, come accadeva ogni sera, le guardie carcerarie erano venute sul molo a contare le barche e visto che ne mancava una, avevano dato l'allarme pensando a una evasione.
I galeotti, quelli meno pericolosi, godevano di una certa libertà nell'isola; alcuni erano adibiti a lavori agricoli ed altri alla pesca con le reti.
Solo dopo un ulteriore controllo e visto che non mancava nessuno all'appello, si fece vivo il proprietario della barca e spiegò a chi di dovere come effettivamente stavano le cose, subendo tutti gli improperi ... che, per diritto acquisito, avrebbero dovuto essere di nostra competenza.
Una volta scongiurata l'evasione, guarda caso, era loro subentrato il sospetto che ci fosse capitato qualche guaio e proprio mentre stavano per dare inizio alle ricerche credendoci ormai alla deriva chissà dove, magari al largo della Corsica, ci videro rientrare arrancando e sbuffando, ma sani e salvi.
Comunque sia ci guardammo bene di spiegare a tutta quella gente ed a Manlio, che nel frattempo si era unito al gruppo, il vero motivo di questo nostro ritardo ... per la cena e ritengo superfluo aggiungere che quella sera tutti e quattro andammo a letto molto ma molto leggeri ... (Capraia fine anni 5O.)
(Racconti senza ritorno-Ricordi del mare-1997)
(Isola diella Capraia con il tracciato del percorso fatto a remi)
In gommone nelle bocche
Credo di ricordare abbastanza bene da poter raccontare di quella gita in mare da me fatta su un piccolo gommone in compagnia di un amico, e un ragazzotto quattordicenne che subito presento: mio figlio Marco e Dino Grasso colonnello di Cavalleria che aveva passato gli ultimi anni in Somalia come inviato del nostro governo prima della pensione e che quando lo conobbi io, era divenuto il primo abitante di Costa Paradiso. Ci aveva costruito la sua villa, all'epoca unica abitazione a parte la vecchia casa del pastore esistente ma poco più di una capanna. A ruota e questo per la cronaca, il secondo ed il terzo furono il sottoscritto e lo svizzero Otto Bachmann con moglie, figlia e il pastore tedesco Wolf. Nelle intenzioni di Dino e di sua moglie Luce era di vicerci in pianta stabile. Il commendator Tizzoni e non trovo altra parola più idonea per qualificarlo come l'inventore di Costa Paradino nel nome ma soprattutto per quello che è diventata negli anni questa località.
Vero mago nel suo lavoro e sinpaticissima persona, di Dino se ne era fatto la sua bandiera e usava dire a chi veniva in visita e per lo più potenziali clienti: "è il primo uomo che ci vive e ci vivrà; quando verrà il suo giorno, ci sarà sepolto".
I coniugi Grasso e il loro amatissimo bassotto li avevo conosciuti nel 1967, circa un anno prima che avesse termine la costruzione della mia casa e della quale ne presi possesso, con moglie e figli, nella metà dell'anno successivo, esattamente nel mese di Giugno del 1968.
Fu nel 1969 due anni dopo quando ormai eravamo diventati buoni amici, che gli proposi di fare una gita via mare con il mio gommone, all'epoca unico natante da l'Isola Rossa a S.Teresa di Gallura, fin sulla costa Smeralda che già aveva preso quell'andamento che non lasciava dubbio alcuno sul suo futuro turistico.
Inizialmente la mia fu poco più di una battuta, ma non per Dino che da quel giorno per stimolarmi, lo ritenne un punto fermo per una continua provocazione verbale. Ovviamente Marco che in un primo momento non rientrava nel programma, tanto fece che, una volta deciso, mi aveva messo in una situazione da considerare doverosamente sottinteso che pure lui avrebbe fatto parte dell'equipaggio. La decisione finale la presi quando, parlandone con Tizzoni, di sua iniziativa ci offrì ospitalità all'isola dei Budelli che a quei tempi era di sua proprietà. Non pose tempo in mezzo comunicando del nostro prossimo arrivo il guardiano dell'isola. Per noi era il cacio sui macchieroni. Come non approfittare di un soggiorno, sia pur breve nell'isola più bella di tutto l'arcipelago della Maddalena e che tra l'altro ritenevo, senza ombra di dubbio, una zona ideale per la pesca subacquea.
Chissà forse si sarà ricordato di quelle due o tre volte quando gli erano capitati clienti non programmati, che lui abitualmente ospitava nella foresteria e essendo sotto il livello di guardia con la gambusa e non sapendo come sfamarli, mi aveva chiesto un piccolo aiuto con una pescata fuori programma, che per lui nella circostanza, senza ombra di dubbio, era stata la soluzione di quel problema. Debbo aggiungere che non rimase mai deluso.
Anch'io con con moglie e figli nel Giugno del 1968 avevo abitato suo ospite per quasi una settimana nella foresteria causa un ritardo nella consegna della villa da parte dell'impresario Pola che a tutt'oggi opera in loco e aggiungerei, a pieno regime. Era stata progettata come pure l'anno prima quella del colonnello Grasso e anni dopo dell'ammiraglio Padolecchia dall'architetto Battigalli Junior perchè suo padre pure architetto, essendo uno dei finanziatori e socio fondatore di tutta l'operazione immobiliare, all'epoca abbastanza spesso era in zona e così ebbi modo di conoscerlo e contattarlo.
Purtroppo il gommone era quello che era e se si aggiunge la presenza inizialmente non prevista di Marco, una volta sistemate due taniche una di acqua e una di di benzina, qualche chiave indispensabile, alcune candele, una picccola scorta di viveri, di spazio a disposizione ne rimaneva ben poco. Ci limitammo ad aggiungere i sacchi a pelo, un fornellino, qualche costume da bagno, le tute, una bussola, una carta nautica, i cerati e un maglione a testa. Non mi pare di fosse altro e pensando alle dimenzioni del battello, non era poco.
Una mattina di metà Luglio con un mare appena increspato da una leggera brezza, demmo inizio a questa piccola avventura partendo dall'insenatura sotto casa, oggi sede del Club Marino, con le rispettive mogli e mia figlia Olivia che all'epoca aveva otto anni, su una scoglio, a sbracciarsi con larghi gesti di commiato non senza inviarci per l'ultima volta, gli scongiuri di rito.
Puntammo a nord costeggiando e tenendo il mercurj a basso regime.
Nel nostro programma non c'era niente di particolare se non quello di passare quache giorno in mare in piena tranquilllità, mangiando il pescato e dormire nelle varie spiaggette che certamente avremmo trovato.
Naturalmente avremmo seguito una rotta a vista valutando cosa fare e dove puntare la prua di volta in volta secondo le circostanze e avendo sempre un occhio di riguardo alle condizioni del del mare. Insomma come termine di paragone potevamo considerarci per qualche giorno, dei vagabondi del mare con un pizzico e forse qualche cosa in più, di incoscienza. Ben diverso da come ebbi a navigare non moltissimi anni dopo.
Non ci lasciammo prendere dalla frenesia della fretta e passammo tutta la mattinata a bighellonare lungo la scogliera e dove e quando possibile, facendo la traina e prendendo diverse Occhiate facilitati dalla mia conoscenza dei luoghi che quasi quotidianamente bazzicavo partendo da Costa Paradiso e con i due due tragitti di andata e ritorno, quasi sempre ne rimediavo non meno di 18-20.
Cucinammo e mangiammo ll pescato su di una spiaggetta. Ricordo che una volta mentre stavo facendo la traina in quella zona, mi capitò di prendere anche un Cormorano che ingannato, aveva abboccato e ingollato esca e amo che poi non fu facile toglierlo dal becco per dargli la possibilità di prendere nuovamente il volo. Fu un esperianza,che non auguro a nessuno. Ebbi modo ci conoscere la bellicosità di questo bellissimo uccello che mai mi stancavo di ammirare nelle immersioni con quella sua perfetta capovolta esempio da imitare da tutti i sub. Cucinammo e mangiammo il pescato su una spiaggetta divertendoci anche a fare uscire dai loro nidi i Colombi, all'epoca numerosi perchè nidificavano nella parte alta della scogliera. Era sufficente battere la mani che uscivano in gran numero dagli anfratti, volteggiavano sulle nostre teste e successivamente un poco alla volta ritornavano al loro nido.
Solo sul tardi decisi di tuffarmi nuovamente per prendere qualche pesce da mettere sotto i denti e una volta che fu cucinato e mangiato, sempre in una delle tante spiaggette prima che facessse buio, già ci eravamo sistemati dentro i sacchi a pelo sulla sabbia e guardando le stelle, ci addormentammo ma non tanto in fretta, forse per l'eccitazione della prima giornata.
Ci svegliò il sole che era già alto e anche se un po' indolensiti ci affrettammo a rassettare, fare colazione e mettere il battello in mare, perchè si stava alzando un venticello che non faceva presagire niente di buono. Aumentammo pure l'andatura e cercando di navigare il più possibile al riparo dalle bocche che già riserntivano del vento proveniente da Nord ovest perchè ormai
erano abbastanza vicine. Per quanto possibile sfruttammo quella striscia di terra che da S.Teresa si prolungava fino a Capo Testa perchè in parte ci stava proteggendo dal mare, ma ormai era giunto il momento di prendere una decisione.
O circunnavigare Capo Testa facendo un bel giro con il mare che certamente ci avrebbe messo in difficoltà, oppure andare a riva, da dove per la cronaca a detta dei ben informati anticamente veniva imbarcato il Travertino sulle navi destinato ai monumenti di Roma, sbarcare e scaricare il battello con tutto il suo contenuto e trascinarlo per quella breve lingua di spiaggia. Optammo per questa seconda ipotesi e in tre viaggi portammo armi e bagagli dall'altra parte e senza colpo ferire potemmo ripredere il mare e puntare su S.Teresa di Gallura ormai ad un tiro di schioppo.
Anche se non era il massimo per gente di mare, ritenemmo che fosse stata la cosa più saggia da fare e ne avemmo immediata conferma perchè per il resto del tragitto avemmo sempre vento di poppa.
Sapevo che non era il caso di rischiare più di quello che stavamo già facendo, consapevole che anche il più piccolo errore, lo avremmo pagato a caro prezzo. Non va dimenticato che Marco era un ragazzo e Dino, già da tempo mi ero reso conto che senza dubbio sarà stato un ottimo cavalleriìzzo, ma in fatto di acquaticità era carente e non parlamo poi di esperienza di navigazione che era pressocchè nulla, Ovvio che sentissi tutta la responsabilità sulle mie spalle e anche per esperienze precedenti sapevo comportarmi in modo tale da non urtare la suscettibilità di nessuno ma agire secondo il mio modo di vedere che poi non era altro che anteporre su tutto il rispetto per il mare: temerlo con la stessa intensità di quanto lo si ama.
Entrammo nel lungo budello che porta al porticciolo di S.Teresa Di Gallura, ben messo ed al riparo da tutti i venti. Attraccammo e ci concedemmo un pò di relax gironsolando e curiosando intorno. Avevamo già adocchiato dove mettere i sacchi a pelo per la notte e prima di sera decidemmo per una cenetta fuori ordinanza nel ristorante attiguo al porto che già conoscevo e che ci avrebbe permesso di non allontanarci troppo dal gommone.
Di buon mattino prima di togliere gliormeggi decidemmo la rotta da seguire e come da copione, fu scelto il tragitto meno rischioso: Anzichè prendere di petto le bocche puntando su Lavezzi per poi ripiegare verso l'isola dei Budelli, optammo di proseguire verso Est e puntare su l'isola di Spargi in modo da avere come il giorno prima, il mare di poppa. Sempre attenti ad non imbarcare acqua ci portammo a ridosso dell'isola per poi ripiegare su Spargiotto che non era altro che un grosso scoglio e a questo punto, sottovento e al riparo del Mistral, gettammo l'ancora su un basso fondale. Per mangiare scendemmo a terra anche perchè io avevo deciso di fare una immersione e cercare di prendere qualche pesce, prima di proseguire per l'isola dei Budelli ormai vicina. La pesca risultò molto proficua perchè oltre i soliti Saraghi e una grossa Murena, ero riuscito ad centrare un bel Dentice che decidemmo di portare all'isola, anche per non arrivare a mani vuote.
In vicinanza della riva spensi il motore e con l'abbrivio ci lasciammo arenare proprio sulle spiaggetta. che ormai aveva ben poco delle vestigia per cui era rinomata. Si qualche residuo di corallo ancora era visibile, ma ben poca cosa. All'ancora ad un centinaio di metri ancorato c'era un veliero che si lasciava cullare dal rullio prodotto dal movimento del mare e che pian piano stava assumendo la giusta posizione con la prua al vento di traversia. Il colpo d'occhio era stupendo e si poteva immaginare a quello che sarebbe stato, prìma dello scempio dei barconi destinati al trasporto e relativo scempio dell'arenile.
Sopraggiunse il guardiano e una volta fatte le presentazioni e i soliti convenevoli gli consegnammo il pescato per la cena e finalmente ci concedemmo un bel tuffo proprio nel momento in cui il sole stava per porre termine alla sua lunga galoppata immergendosi
nell'azzurro del mare, irradiando tutto intorno una luce di rosso fuoco e trasformando i nostri spruzzi d'acqua in uno scenario di fantastici e irreali colori.
La tavola per la cena fu preparata dalla compagna del guardiano e allestita all'aperto a ridosso di una casupola simile alle tante case del pastore, sparse in Gallura e conosciute con questo nome a seguito del suo utilizzo che consisteva nel fare da rifugio ai pastori che in certi perodi dell'anno portavano il loro gregge nei ben magri pascoli della zona.
Per questo si spiega la poca iomportanza come valore che i sardi davano alle coste rispetto all'entroterra, che era molto più ricco di pascoli. A questo proposito mi ricordo di alcuni aneddoti che circolavano in quegli anni nella seconda metà del sessanta. quando ebbe inizio la corsa all'acquisto dei terreni nel comune di Arzachena e nel quale in pochi anni sorse la Costa Smeralda.
Come di quel proprietario che preferì un offerta del proprio terreno di un certo numero di milioni, rifiutando un altra offerta di un miliardo, tutto perchè non conoscendone il reale valore, non volle correre rischi e preferì andare sul sicuro. Oppure di un altro che nel contratto di vendita arcimilionario, pretese ci fosse inclusa una postilla nella quale suo figlio avrebbe avuto diritto vita natural durante ad un posto come custode....
Tornando a noi, tutto sommato fu una serata abbastanza allegra e comunque diversa dalle precedenti, anche se del nostro Dentice non si era nè visto nè sentito neppure l'odore. La Murena c'era eccome e anche se cucinata sapientemente, era e rimase pur sempre una Murena.
L'arcano lo scoprimmo al mattino del giorno dopo quando, essendo tornati sulla spiaggia per fare il bagno, fummo avvicinati da un tipo che ritenni facesse parte dell'equipaggio, che dal veliero su un gommoncino si era avvicinato e ci chiese se avevamo altro pesce da vendere....
Sin dall'inizio ci eravamo resi conto che il guardiano doveva essere un tipetto poco raccomandabile e che forse il tipo di vita in solitario che era costretto a fare, non aveva giovato
sul suo bon ton e la sua compagna..invece pure. Sotto questo aspetto formavano una coppia ben affiatata e come si usa dire, si trattava di Zuppa e pan bagnato.
Fu per questo loro comportamento e di altri che non sto a menzionare che, dopo un breve conciliabolo, decidemmo a non prolungare il nostro soggiorno nell'isola e contrariamente a come
avevamo preventivato, saremmo rimasti ancora un giorno ma come si usa dire, solo per garbo, per poi partire la mattina successiva. Nello spiegare questa nostra decisione alla coppia, non ci fu da parte loro, alcun accenno anche minimo di sorpresa, figuriamoci poi di insistere almeno quel tanto per salvare la faccia. Anzi ci parve di leggere nei loro volti, un mal celato e insperato sollievo, che confermò, ammesso ce ne fosse stato bisogno, la saggezza della nostra decisione.
Comunque una giornata piena, fatta da villeggianti e con la mente sgombra da problemi di qualsiasi tipo, non ci fece che bene e ci ritemprò. La sera consegnammo altro pesce anche per non incidere minimamente sul bilancio familiare di quella strana coppia e dopo un altra notte passata sotto le stelle, di primo mattino, mettemmo in moto il Mercurj e via... verso La Maddalena.
Dato che il Mistral sia pure a tratti continuava a soffiare incuneandosi tra le bocche, ritenemmo fosse più saggio, onde evitare di prendere le onde al traverso, di passare dalla punta Nord della Maddalena poi scendere a Sud, costeggiandola da oriente e così facendo potemmo fare una tranquilla navigazione. Una volta arrivati al ponte che unisce La Maddalena all'isola di Caprera, ci passammo sotto per poi, poco dopo, nuovamente sbucare sul proseguo delle bocche ma sempre abbastanza protetti dall'isola di S.Stefano verso la quale ci dirigemmo. a motore spento, sempre con l'abbrivio, ci lasciammo arenare su una spaggetta che ci parve molto accogliente e con vista del lungo mare. Non potevamo pretendere di meglio.
Era il quinto giorno dalla nostra partenza da Costa Paradiso e la quinta notte che, dentro i nostri sacchi a pelo ci addormentavamo, non contando ad occhi chiusi le ben note pecorelle, ma con gli occhi spalancati, a contemplare le miriadi di stelle.
Al mattino, ci avvicinammo al porto della Maddalena anche se quel breve tratto di mare era in ebollizione, ma d'altronde avevamo necessità di rifornirci di carburante e comprare qualche cosa da mettere sotto i denti. Fissammo una cima ad uno degli anelli del molo non lontano dal traghetto proveniente da Palau e approfittammo per concederci una ricca colazione in un vicino bar. Subito dopo fatto il pieno di benzina e un po' di spesa, ripartimmo avendo programmato di arrivare a Porto Cervo, nella tarda mattinata.
Nel frattempo il vento era aumentato di intensità e non lasciava prresagire niente di buono e allora, sempre per evitare inutili rischi, decidemmo di fare una sosta in una piccola insenatura abbastanza riparata dell'isola di Caprera. Gettammo l'ancora aspettando il momento buono per colmare quel tratto di mare che ancora ci divideva dall'insenatura di baia Sardinia dopo la quale potevamo proseguire verso Sud al riparo dal Mistral.
Il tempo di fare un pensierino di entrare in mare per una improbabile cattura di un paio di pesci,
che dalla vicina riva ci sentimmo apostrofare da due marinai sbucati da qualche parte, che senza tanti preamboli ci comunicarono che eravano in zona militare proibita ai civili e che dovevamo immediatamente allontanarci. Facemmo presente che pur non sapendo di questo divieto, la nostra era una sosta forzata causata dalle pessime condizioni del mare, ma tutto quello che riuscimmo ad ottenere furono pochi minuti, il tempo necessario di rassettare al meglio quanto avevamo sul gommone e metterlo nella migliore condizione per affrontare quel tratto di mare.
Tuttto sommato il salto alla costa Nord orientale della Sardegna fu relativamente breve anche se non privo di insidie. Il mare questa volta stava facendo sul serio e ci rendemmo conto quanto sarebbe stato difficile per non dire impossibile, il nostro girovagare sulle Bocche, se il Mistral
si fosse svegliato sul serio qualche giorno prima. Comunque ora ci trovammo a navigare in un mare accettabile e senza fare ulteriori fermate, viaggiando ad una buona andatura, potemmo arrivare senza problemi a Porto Cervo. Eravamo euforici come spesso capita, dopo un momento difficile e soddisfatti perchè avevamo vinto la nostra scommessa di essere arrivati con un piccolo gommone a fare un tratto di mare tra i più pericolosi del Mediterraneo partendo da Costa Paradiso e arrivando a Porto Cervo.
Nel porto mentre ci accostavamo per attraccare, avevamo l'impressione di transitare in
mezzo a dei giganti e dal nostro orizzonte molto limitato, faticavamo a renderci conto della quantità di ferri da stiro come a ragione od a torto vengono chiamati i motoscafi d'alto mare, senza contare
le barche a vela di tutte le dimensioni oltre alcuni velieri che come immagine se la facevamo da padroni. Non mancava pure una grande barca, credo di ricordare un Panfilo immagino di proprietà del solito sceicco.
Immancabile passeggiata nella piazzetta, una bibita rinfrescante e subito dopo alla ricerca di un ristorante possibilmente non frequentato da armatori. Fu tutto OK. Passammo dalla capitaneria per prendere informazioni sulle previsioni meteorologiche e delle condizioni del mare per i prossimi giorni, ma non ce ne fu bisogno perche il triangolo nero ben in mostra indicava inequivocabilmente tempesta da Nord Ovest. Non ci restò che prenderne atto e ritenemmo che la cosa più saggia da fare fosse di proseguire ulteriormente verso sud e cercare una baietta adatta alle nostre esigenze, isolata, ben riparata, e sabbiosa. Non faticammo molto a trovarla.
Passammo il pomeriggio e il giorno successivo da turisti oziando e pescando quel tanto per sopravvivere, ma ormai inutile nasconderlo era finita la carica che avevamo avuto fino a poche ore prima. Ad ogni buon conto non potevamo permeterci di rischiare delle giornate a fare i turisti per caso e tanto meno tentare un ritorno via mare con le Bocche in tempesta, sarebbe
stata una tragedia annunciata.Tra l'altro era una settimana che eravamo partiti e dovevamo
affrettarci a rientrare a costa Paradiso prima che le mogli ci dessero per dispersi, perchè non avevamo alcuna possibilità di comunicare con loro. Tanto per capirci, a Costa Paradiso non c'era ancora la luce, figuriamoci il telefono. non ultimo in quella spiaggetta ci avevano preceduto degli ospiti poco graditi, le Zecche. La decisione fu presa in due minuti, cercare un cristo qualsiasi che avesse un mezzo di trasporto adatto a contenerci e disposto a traghettarci fino a casa.
Anche per ingannare il tempo e l'ozio, Rifacemmo mentalmente tutto il percorso con tutte le considerazione del caso, ma quello che maggiormante mi impressionò la totale disponibilità di Marco del quale non ricordo una parola, dico una, in contrasto a tutto ciò che avevamo fatto, senza mai un momento di debolezza e mai dando adito a critiche di qualsiasi genere. Sinceramente non me lo aspettavo così disponibile e mi ritenni felice della scelta che avevo fatto. Non so che ricordo ne abbia oggi, ma certamemente per un quattordicienne, doveva essere stata una bella avventura e da portarla appresso negli anni a venire. A lui non ho mai chiesto niente, ma spero proprio che sia cosi.
Trovato il mezzo e sgonfiato il gommone, prendemmo una via interna perchè passando da S.Teresa di Gallura, c'era è vero la litoranea anche se scassata ed in vari punti era più un percorso di guerra che una strada, ma prima di arrivare a Costa Paradiso avremmo trovato un ponte che all'epoca... avevano dimenticato di ripararlo e pertanto iintransitabile alle auto e tanto meno a camion.
Così ebbe termine la nostra piccola avventura. D'altra parte i due fuori programma, per intenderci l'ultimo e quello a Capo Caccia, non devono fare scandalo se si pensa che da ex marò della S.Marco, questi avvicendamenti facevano parte della normale routin di tutti i giorni dei mezzi da sbarco....
Una volta arrivati, dovemmo subire le ire delle rispettive mogli ormai al limite della sopportazione e per finire in gloria, fummo messi tutti e tre in isolamento per eliminare gli occasionali compagni raccattati nell'ultima tappa del nostro viaggio...
(Giugno, luglio 1998)
(Itineraro del percorso in gommone e delle soste effettuate, da Costa Paradiso alla costa Smeralda )
Pianosa
Erano gli anni delle ferie passate con due o tre gruppi familiari prima sotto la tenda, successivamente con la Roulotte, prima di arrivare all'ultima fase, la casa in Sardegna.
Tenda voleva dire sacrificio per la moglie, almeno per la mia e proprio per questo in determinate circostanze, facevo qualche puntata da solo con uno o due amici, in una delle isole del'arcipelago toscano, Capraia, Elba, Giglio, Pianosa e proprio di Pianosa che questa volta voglio parlare.
Era inteso che mi avrebbe accompagnato Ennio che non ho mai capito se a queste scorribande veniva perchè effettivamente gli piaceva partecipare, o perchè riteneva imbarazzante un diniego, essendo lui bene o male, anche il tecnico che mandava avanti una delle mie attività:
un piccolo maglificio. Con il senno del poi, credo più probabile fosse la seconda delle ipotesi.
Qualsiasi cosa decidessi di fare, il primo ad essere inteppellato era lui, che sempre accettava di buon grado ed io ho sempre pensato che gli andava a genio tutto quello che facevo. Lo ritenevo un buon amico e non ho memoria di in tanti anni di un litigio tra noi. Forse lo avrò scritto anche in qualche altra occasione, se è cosi, mi ripeto, ma per me era un buon amico egli ero veramente affezionato.
Il primo scoglio da superare, era il permesso del ministero di grazia e giustizia che si otteneva tramite la Procura . Non dimentichiamo che all'epoca a Pianosa c'era il carcere ma di quelli tosti dove molti degli ospiti erano ergastolani, per intendersi non come alla Capraia. Avevo sempre sentito parlare di guardie a cavallo e questo aveva stuzzicato la mia fantasia anche se in fondo la ritenevo una cosa poco e probabilmente e certamente attribuibile a qualche buon tempone.
Ottenere questo permesso fu più facile di quanto pensassi perchè il sostituto procuratore a Lucca in quegli anni era una persona che conoscevo molto bene e che si era reso sempre disponibile, forse complice il comune interesse per l'arte.
Partimmo una mattina del mese di Agosto in auto destinazione Piombino prendendo la nave che ci portò a Portoferraio. Una volta scesi, sempre in auto, fu raggiunta Marina di Campo. Mi pare di ricordare che il traghetto per Pianosa c'era una o due volte la settimana. Ovviamente lasciammo l'auto da qualche parte e ci imbarcammo sul traghetto che nel giro di due o tre ore gettò l'ancora poco distante dall'imboccatura del porto, dove ci attendeva un altra inbarcazione molto più piccola causa il basso fondale. che in due balleti attraccò al molo del bellissimo porticciolo. Fin qui tutto filò liscio come l'olio e senza alcun intoppo.
Avevamo portato una tenda, tutto l'occorrente per la pesca subacquea e, dato che non era consentito portare natanti di qualsiasi tipo, avevo avuto l'accortezza all'ultimo momento, di portare un piccolo fuoribordo che come vedremo, fu la nostra fortuna. A questa decisione naturalmente aveva influito non poco il frutto di precedenti esperienze su altre isole dell'arcipelago. Già prima di arrivare mi aveva impressionato quella lunga striscia bassa all'orizzonte, poco visibile,perchè l'isola ha un altitudine di qualche metro sul livello del mare, praticamente zero. il nome che porta, spiega solo in parte la realtà dell'isola. Ovviamente aguzzando la vista cercai aimè inutilmente traccia di queste benedette guardie a cavallo.... Sbarcati e scaricato il nostro voluminoso bagaglio che lasciammo incustodito sul posto, il nostro primo pensiero fu cercare fuori dell'abitato un luogo adatto per sistemare la tenda. Non avevamo messo neppure due picchetti, che si avvicinano due carabinieri e ci comunicano che per ragioni di sicurezza, non era consentito a chicchessia pernottare in tenda sull'isola.
In parole povere il direttore del carcere (chissà forse già sapeva del nostro arrivo) tramite loro ci comunicava che se non si trovava ospitalità in qualche casa dovevamo nuovamente imbarcarci sulla nave che ci aveva portati e che sarebbe ripartita nel giro di un ora. In altre parole: "qui le leggi le faccio io e vanno rispettate, altrimenti togliete il distutbo".
Ovviamente l'esibizione del permesso di soggiorno che avevamo appresso non cambiò di una virgola il concetto.
Al porto dove immediatamente ritornammo, c'erano alcune guardie carcerarie che aspettavano di imbarcarsi per l'Elba, forse per un periodo di ferie, e fu a loro che chiedemmo consiglio di come e dove cercare una camera in attitto. Ci fu spegato che praticamente tutte le case erano abitate da famiglie di guardie carcerarie e ben volentieri avrebbero affittato, bastava chiedere.
Non esagero, nel giro di una mezz'ora con una modica spesa ci eravamo sistemati presso una famiglia che abitava sul porto e la nostra camera aveva l'ingresso proprio sul molo. Una pacchia. Addirittura la signora con la quale trattammo si dimostrò disponibile, se volevamo. a prepararci
pure i pasti. Dal quel pomeriggio quella cameretta fu il nostro punto di riferimento.
Capimmo immediatamente quale atteggiamento avremmo dovuto assumere se volevamo un soggiorno quanto meno tranquillo e l'idea vincente arrivò a seguito di una pescata fatta al mattino del giorno dopo. Facemmo richiesta di essere ricevuti dal direttore che subito fu concessa. Una volta che ci fummo presentati naturalmente come prima cosa lo ringraziammo dell'ospitalità sull'isola e chiedemmo se gradiva un piccolo pensiero accettando il pescato che avevamo portato e lasciato al corpo di guardia. A parte l'atteggiamento autoritario che aveva assunto, appena ci fummo presentati, si rallegrò per la nostra sistemazione che ci aveva permesso di restare e non mancò di darci alcuni pratici consigli che non sto ad elencare. Insomma tutto sommato fu gentile e con un sorriso che mi parve un po' malizioso, accettò di buon grado la nostra precedente offerta.
Durante tutto il nostro soggiorno a Pianosa, che si protrasse per circa due settimane, non
mancammo mai di fargli pervenire qualche pesce e non so se dipendesse da questo nostro comportamento. ma il fatto sta che mai avemmo alcun fastidio. Basti pensare che il mio piccolo fuoribordo era stato notato e debbo dire con interesse da una guardia carceraria con la quale avevamo fatto amicizia, ricordo il suo nome, si chiamava Italia che, guarda caso, aveva una barchetta a remi e fu facile l'accordo anzi fu immediato, perchè motore+ barca era un binomio vincente.
Tra l'altro Italia che era un bravuomo e molto tranquillo, si limitava a fare qualche giretto con
sua moglie e suo figlio, un ragazzetto di 4 o cinque anni. In pratica avevamo la barca a disposizione tutto il giorno e solo chi si è trovato a passare giornate su un isola senza un mezzo per potersi muovere in mare, può veramente capire la portata della nostra fortuna. Credo proprio che non sia stato del tutto estraneo nostro pesce ( se non altro per la nostra disponibilità) che nella circostanza fu ignorata o quanto meno sopportata la presenza di una barchetta a motore che dalla mattina alla sera non faceva che bazzicare su tutte le secche che circondano l'isola facendone il periplo più di una volta al giorno. Solo la sera non potevamo muoverci e dovevamo togliere il motore e portarlo in camera.Tutti questi passaggi a basso regime aumentarono di molto i nostri carnieri per il fatto che oltre alla pesca subacquea, dedicavamo gran parte della giornata alla pesca con la traina perchè risultò essere oltrechè divertente, molto redditizia su quei bassi fondali, per la quantità delle Occhiate che riuscivamo a portare in barca.
Solo anni dopo a fine sessanta e primi settanta a Costa Paradiso costeggiando la costa Sarda verso nord riscontrai qualche cosa di simile.
Caso volle che durante la nostra permanenza a Pianosa arrivassero altri sub perchè essendo prossimo il campionato mondiale di pesca subacquea, che si sarebbe svolto nel mediterraneo, la federazione aveva deciso di effettuare la selezione per formazione della squadra italiana. proprio a Pianosa.
Frequentavano per i pasti un piccolo locale dove qualche sera andavamo anche noi così avemmo l'opportunità di conoscere qualche campione. Ricordo che io simpatizzai con Bernardi, Fiorentino e se non ricordo male medico, che all'epoca era uno dei migliori e che già conoscevo di nome. Ovviamente loro si immergevano oltre le secche, in profondità e la sera Bernardi all'ora di cena, si presentava con delle grosse Ostriche certamente trovate durante quelle immersioni e non marcava mai di offrirne anche a noi, come antipasto. Mica male. Si trattennero pochissimi giorni ma servirono ad interrompere il nostro tran tran quotidiano. Naturalmente nella circotanza ci guardammo bene di rifornire la dispensa del direttore, onde evitare paragoni che per noi, senza olbra di dubbio, non sarebbero stati esaltanti....
Non ebbi più occasione di incontrarlo e solo casualmente dopo del tempo. non ricordo quando, leggendo un quotidiano, venni a conoscenza della disgrazia in qui era incorso mentre pescava al largo di Alghero. Pare un motoscafo non si fosse accorto della sua presenza in mare.
Non ebbe scampo.
Negli ultimi giorni di permanenza ormai sazi di pesca, ci dedicavamo al osservare il fondali o meglio le secche proprio a ridosso dell'isola anche guardando con lo specchio dalla barca o perlustrando il fondo con gli occhiali e proprio in una di queste circostanze mi parve di vedere un vaso incastrato tra due massi. Per essere certo andai in acqua e constatai che avevo visto bene: si trattava di un alfora romana del tipo che si usava per il trasporto del grano e per questo le conosciamo come granarie. Anche avessi avuto l'intenzione di toglierla, sarebbe stata una fatica inutile, piuttosto insistei nel perlustrazione la zona per vedere se ce n'erano altre e dopo poco la mia curiosità fu premiata.
A ridosso appoggiati al bagno asciuga partendo dal fondale profondo non più di tre, quattro metri, messe una sopra l'altra e incastrate tra loro si vedevano alcune file vicine tra loro formando come delle palafitte che senz'altro facevano da base per appogggiarci un pontile per un piccolo imbarcadero o un attracco.
Tutto intorno c'erano dei colli di anfora e altri cocci che nel cui interno ancora c'era traccia del materiale che era stato usato per tenerle collegate tra loro. In un altra occasione ebbi modo di vedere lo stesso modo di utilizzarle esattamente sempre in mare nei pressi di Ansedonia, prima castra romana, dove ancor oggi si possono ammirare le sue ciclopiche mura. Questa nuova scoperta rafforzò la mia convizione della teoria che mi ero fatta sul loro utilizzo.
Ormai eravamo agli sgoccioli e cosi sia pure a malincuore cominciammo a pensare al rientro perchè le mogli reclamavano il loro diritto di passare assieme le residue vacanze e cosi anche a mailncuore decidemmo di porre termine a questa nuova esperienza passata in quest'isola di
ergastolani. Anzi anticipammo di un paio di giorni perchè ci capitò di chiudere anche questa esperienza in gloria, merito di un peschereccio che avendo gettato le reti non lontano, e si era riparato per la notte nel porto di Pianosa causa il mare mosso, pronto a ripartire all'alba del giorno dopo per ricuperarle e poi proseguire per Marina di Campo e vendere il pescato.
Chiedemmo se potevamo approfittare della loro ospitalità anche disposti, a dare una mano. Il comandante non trovò difficoltà alcuna comunicandoci che la partenza era alle prime luci dell'alba del mattino dopo. Dedicammo la serata per chiudere i nostri conti, salutare la famiglia che ci aveva ospitato permettendoci cosi questa nuova esperienza e Italia che ci volle a cena a casa sua, dove tra l'altro mangiammo il poco pesce rimasto e pescato il giorno prima.
Ci presentammo al mattino con armi e bagagli in anticipo, comunque imbarcandoci e sistemare le nostre cose in zona defilata dove non avrebbero creato intralcio alcuno e al primo chiarore, furono tolti gli ormeggi.
Dopo una buona mezz'ora di navigazione furono avvistati i segnali a mare che indicavamo l'ubicazione delle reti e poco dopo iniziammo la fase del loro ricupero. Il sole ormai era alto e a parte il mare ancora mosso che stimai forza tre, quattro, la giornata si preannunciava promettente e assolata. Il comandante appena iniziato il ricupero contro vento si mostrò subito ottimista e penso perchè man mano che veniva ricuperata la lunga rete e issata a bordo, la resistenza della parte ancora in mare era superiore al normale: "Più pesce c'è", pensai, " più difficile sarà il suo ricupero". Sia io che Ennio concentrati e presi da questa nuova esperienza, incuranti degli scrosci di mare che il vento ci scagliava in faccia, eravamo bagnati come pulcini nonostante i cerati che provvidenzialmente ci erano stati prestati.
Pensavo: "ora ci siamo sarà questione di pochi metri ancora", ma questi metri mi parvero infiniti, quando improvvisamente sotto di noi apparve una grossa ombra e fu che urlai: "quanto pesce..." poi, man mano che la rete veniva issata a bordo, questa ombra mi apparve nella sua totalità e prima con stupore e successivamente con rammarico dovetti constatare che si trattava di un grosso delfino, rimasto impigliato nella rete e affogato per l'impossibilità di risalire e respirare. Quasi certamente si era fregato per l'ingordigia di mangiarsi senza faticare qualche pesce intrappolato nella rete. Avevo la cinepresa e cosi ebbi modo di immortalare il tutto. Fu l'ultimo atto purtroppo triste di questa bella vacanza, che ci lasciò l'amaro in bocca.
Comunque fu una bella esperienza che è rimasta nella mia mente assieme alle altre tante, similari, ma sempre diverse fatte all'Elba, alla Capraia con i galeotti, Nall'assolata spiaggia del Campese al Giglio in perenne ricerca di acqua, a Ponza, a Panarea alle altre isole Eolie ecc.ecc.perchè di ognuna ho un ricordo particolare e di alcune ho voluto pure scrivere pensando che forse un giorno chissà a qualcuno leggendo questi racconti, non venga la voglia di emularmi.
Dopo vari anni quando ancora stavo costruendo la casa a Costa Paradiso , mi capitò di andare all'isola Rossa, un paesino che ha preso il nome dall'isolotto che ha proprio davanti, che come tanti altri luoghi della Sardegna cominciava a ingrandirsi e popolarsi, notai che era stato aperto un negozietto di tabacchi che vendeva anche giornali.
Entrai comprai il giornale e il padrone mi attaccò un bottone e tra un discorso e l'altro, raccontò
che il negozio se l'era fatto con i risparmi di una lunga militanza da guardia carceraria nei vari penitenziari lungo la penisola. Quando gli chiesi dove maggiormente era stato, mi rispose:
"più di ogni altro posto, all'isola di Pianosa." al che isintivamente mi venne spontaneo di dire: "A Pianosa per un breve periodo ci sono stato anch'io" .... ma non aggiunsi altro e anche se dalla faccia che fece capii perfettamente cosa aveva pensato, mi guardai bene di chiarire.Avrei dovuto, ma non lo feci. Perchè? Bo! Comunque in questi ultimi tempi sono ritornato all'Isola Rossa e volutamente sono entrato trovando al suo posto un grande locale bar tabacchi di tutto rispetto e posizionato proprio davanti al porticciolo da pochi anni costruito. Meglio cosi ho pensato. Non ho chiesto del vecchio proprietario, mi è parso ovvio dato gli anni ormai passati, ma per associazione di idee mi son venuti in mente altri fatti avvenuti anni precedenti e che, spero, saranno oggetto per un prossimo racconto.
(Settembre- 1999)
(L'ingresso del porticciolo di Pianosa)
(Isola di Pianosa)
La gioia di vivere
Era una barca a vela che avevo acquistato in società con due amici e il suo nome Pagudi lo avevamo ricavato dalle iniziali dei rispettivi cognomi.
Senza grandi pretese (un Alpha 9,5O), aveva una zavorra che sfiorava le due tonnellate di peso e il motore ausiliario, un Fariman, aveva una velocità di crociera di sei nodi. Per le piccole crociere, come la usavamo noi, era l'ideale. Aveva quattro posti letto oltre la cuccetta del navigatore, un cucinotto e un piccolo servizio, che per la verità non funzionava quasi mai. Non mancavano a bordo il radiotelefono, l'ecoscandaglio, il portolano ed un bel numero di carte nautiche. Il suo maggior pregio era la stabilità in mare che permetteva di navigare con una certa tranquillità, e non ultimo in ordine di importanza, era sufficientemente comoda.
Quell'anno, si era nel mese di Luglio, avevo deciso assieme a mio fratello Aligi e nostro cugino Manrico, di partire da Viareggio, andare all'Elba, prelevare Manlio, (altro cugino) dalla sua villa al Procchio e proseguire per qualche altra isola dell'arcipelago toscano.
Purtroppo non fu un anno fortunato per le condizioni del mare e già da quel primo giorno un onda corta di prua alimentata da un fastidioso scirocco mi convinse a mettere in funzione il motore, anche in considerazione che l'equipaggio in fatto di vela era completamente digiuno ed io nella circostanza, solo come ero, non è che potessi fare grandi cose, tanto meno navigare di bolina e fare un infinità di bordi.
Mi ripromisi di insegnare alla ciurma qualche piccola nozione di vela in modo che all'occorrenza potesse essermi di aiuto, ma in quel momento allo stato di fatto, loro due con l'aggiunta del mezzo marinaio che avevo a bordo, non facevano un marinaio completo ...
Comunque non ci furono grossi problemi e dopo circa undici ore arrivammo all'Elba. Misi la prua in direzione dello scoglio della Paolina e poco dopo gettammo l'ancora nella piccola baia, proprio di fronte la villa di Manlio.
Ci stava aspettando e dopo i soliti convenevoli, per la verità ridotti al minimo, accettammo di buon grado la sua ospitalità avendo deciso di proseguire l'indomani mattina. Aveva fatto preparare una buona cena, il vino non mancava e piuttosto euforici, come sempre capita dopo una giornata passata in mare, fatta la doccia per liberarci dal salmastro, ci lasciammo andare alle libagioni e forse esagerando anche più del dovuto.
Era mia abitudine quando andavo in barca, indipendentemente che fossi o meno a bordo, stare sempre all'erta ed attento anche al più piccolo cambiamento del tempo. Anche quella sera avvertii subito che il vento stava aumentando di intensità e non lasciava prevedere niente di buono perciò pensai "Meglio non rischiare" ed anche se ormai era notte fonda, non posi tempo in mezzo.
Mi imbarcai nuovamente avvisando gli altri che mi sarei diretto al porto di Marciana Marina e l'indomani, tempo permettendolo, sarei ritornato a prenderli.
Lasciando la barca dove era e alla ruota, anche se abbastanza protetta dal vento, temevo che l'ancora, a causa del fondale sabbioso e senza grandi appigli, arasse, con il pericolo di mandarla alla deriva o alla migliore delle ipotesi si arenasse sulla vicina spiaggia.
Ero abituato a viaggiare di notte, anzi a volte nei trasferimenti lo preferivo, perciò non era questo il problema e neppure quello di essere solo, a parte le difficoltà che avrei potevo trovare al momento dell'attracco, se sul posto non trovavo un minimo di collaborazione, ma piuttosto erano i fumi dell'alcool che si facevano sentire.
Faticavo un poco a concentrarmi e sentivo i riflessi ritardati. Niente di allarmante, ma comunque sapevo essere due motivi sufficienti per stare in campana più del solito.
La distanza era relativamente breve, ma per evitare inutili rischi mi ero portato verso il largo e poco dopo, fui in vista del faro del porto di Marciana. Una volta arrivato entrai nel porto e calcolato l'abbrivio, spensi il motore lasciando che la prua della barca dolcemente si facesse posto tra una selva di pescherecci. Gettai una cima alla prima persona che vidi e mi precipitai in cuccetta. Certo non era stato un attracco da manuale, ma in quel momento avevo solo un desiderio, dormire.
Fui svegliato da un gran trambusto; capii che i pescherecci salpavano per andare a tirare su le reti gettate in mare la sera prima e così, sempre a notte fonda, dovetti cercare un altro attracco. Fui fortunato, lo trovai subito e in pochi minuti ero nuovamente nella mia cuccetta dove mi addormentai come un sasso.
Questa volta mi svegliò il rumore di passi in coperta e dalla scaletta, immediatamente dopo, vidi scendere uno dietro l'altro il mio equipaggio al completo.
Erano venuti in macchina e volevano accertarsi che tutto mi fosse andato liscio. Pensai che era lodevole il loro interessamento, ma forse non proprio tempestivo ... .
Salimmo in coperta e dal sole già alto mi resi conto di aver fatto una bella dormita; andammo tutti a fare la prima colazione in un bar dove ci bazzicavo una ventina d'anni prima e ci si gustava un aleatico denso come l'inchiostro.
Facemmo provviste, ci rifornimmo di carburante in modo da essere autonomi per qualche giorno e subito dopo, mentre gli altri rientravano in macchina, io e Manlio, che aveva deciso di restare con me, riprendemmo il mare in direzione del Procchio.
Il vento era calato, resisteva solo una leggera brezza e così come arrivammo, senza neppure gettare l'ancora, fu imbarcata qualche altra cosa che poteva essere utile, oltre un piccolo battello che Manlio, all'ultimo momento, aveva deciso di portare e che legammo con una cima a poppa.
Issammo le vele e ci lasciammo andare senza una meta ben precisa ma solo limitandoci a costeggiare l'isola in senso antiorario, oltre Marciana. Era una giornata stupenda e tutto contribuiva a farcela pienamente godere. Da ogni poro della pelle sentivo il piacere di questo andare nel più assoluto silenzio crogiolato da un bel sole, che quella leggera brezza me lo faceva maggiormente accettare ed apprezzare.
Doppiammo il promontorio di punta Nera e gettammo l'ancora in una piccola insenatura. Eravamo completamente nudi approfittando di quella zona isolata e ognuno di noi si mise a fare quello che più gli piaceva. Io approfittai per rassettare il sartiame e controllare che ogni singolo oggetto fosse al suo posto in previsione della prossima traversata. Due di noi andarono in acqua allontanandosi a nuoto ed il quarto rimase con me a bordo per un impellente ... bisogno.
Come ho già avuto modi di accennare, a bordo tutto era efficiente e funzionava a meraviglia, tranne il gabinetto; così non mi restò che spiegare e far vedere in pratica quale era il sistema migliore per soddisfare a questa sua necessità. Allontanai di qualche metro la barchetta a rimorchio poi: Tutto fuori a poppa, le gambe piegate in posizione consona alla necessità, le mani attaccate al parapetto del pozzetto, le braccia ben distese e il gioco era fatto. Non voglio scendere in ulteriori particolari ma, specie in navigazione, è una posizione ottimale, provare per credere.
Andò tutto a meraviglia con grande sollievo dell'interessato, solo che le libagioni della sera precedente gli avevano scombussolato l'intestino con il risultato che un bel tratto di mare fu contaminato. Insomma uno spettacolo non proprio edificante anche in considerazione della bonaccia che c'era e l'unica cosa di sensato che potevo fare era spostare la barca in altra zona. Ma non ne ebbi il tempo perché i due che erano in mare stavano rientrando. Nuotavano con il massimo impegno e si trovarono giusto in rotta di collisione con quanto era stato espulso in abbondanza pochi attimi prima. Feci del mio meglio per destare la loro attenzione con urla, con gesti, ma inutilmente. L'impatto anche se morbido, fu inevitabile.
Pensai bene in un primo momento, di ignorare l'accaduto. Solo dopo, quando finalmente diressi la barca in altra zona, il desiderio di raccontare quanto successo fu più forte di me, con il risultato di un ulteriore velocissimo tuffo in mare, questa volta di tutti me compreso, per evitare il rischio di esserci spinto non proprio con le buone maniere. Poi tutto finì in una risata.
Ho cercato di raccontare questo episodio con il miglior garbo possibile, con la speranza di esserci riuscito; d'altra parte non potevo ignorarlo del tutto sia perché la carenza a bordo di servizi igienici fu sempre una spina nel fianco dei miei compagni di viaggio, ma anche una nota di colore che a mio avviso, meritava essere ricordata.
Una volta nuovamente a bordo, demmo fondo alla cambusa eliminando tutto quanto rimasto dalla cena della sera precedente, che avevamo pensato bene di imbarcare. Più tardi, dopo un breve riposino, facemmo rotta su Montecristo.
Man mano che ci allontanavamo dall'Elba la brezza che spirava si trasformò in un vento fresco che ci permise di alzare randa e fiocco e procedere a una velocità abbastanza sostenuta. Con la ciurma le cose erano migliorate sia per la buona volontà di Manrico, sia per la presenza di Manlio abbastanza pratico di barche.
L'unico che si disinteressava completamente delle varie manovre era Aligi che passò quasi tutto il tempo sotto coperta a leggere.
Dopo circa un ora e mezzo ci trovammo al traverso di Pianosa che doppiammo sulla destra e dato che avevo programmato di fare una pescata nelle secche che circondano l'isola che ben conoscevo avendoci soggiornato per tre settimane, (non da galeotto come qualcuno volle subito insinuare) indirizzai la prua della barca a terra. Erano trascorsi pochi minuti che ci appparve il motoscafo della finanza e senza tanti complimenti, fummo invitati a proseguire per la nostra rotta. Non me lo feci ripetere due volte perché sapevo che senza il permesso del ministero di grazia e giustizia non c'era possibilità alcuna di avvicinarsi, tanto meno di ormeggiare.
Arrivammo a Montecristo che ancora il sole era alto. Ci ancorammo in mezzo alla baia di cala Maestra lasciando la barca alla ruota avendo spazio a sufficienza su trecentosessanta gradi. Quella sera c'erano solo altre due barche attraccate al piccolo pontile. Noi non ce lo potevano permettere, perché il fondale in quel punto era inferiore al pescaggio della nostra barca.
Mi accertai che l'ancora avesse fatto buona presa sul fondale e prima di calarla in mare, avevo legato al secondo anello una grippia munita di galleggiante in modo che, in qualsiasi momento avessi voluto, non avrei avuto difficoltà alcuna a issarla a bordo. Fu una precauzione che poi risultò molto utile.
Non avevo altro da fare e allora di buon grado decisi per un tuffo in mare dentro quella baia così invitante e per godermi lo spettacolo del fondale, misi maschera e pinne.
Feci qualche sommozzata e mi avvicinai alla scarpata subito fuori la baia quasi a ridosso della scogliera, che dopo uno scalino di pochi metri, precipita nel blu più profondo.
Quando risalii a bordo, ebbi appena il tempo di mettermi un indumento asciutto e rilassarmi un attimo, per poi assistere a un tramonto mozza fiato.
Ricca mangiata, un ultima occhiata d'assieme e via in cuccetta seguito dagli altri. Chi per un motivo chi per un altro, eravamo tutti cotti e non faticammo ad addormentarci.
( Montecristo )
Era notte fonda quando avvertii un leggero rullio della barca, che con il passare del tempo aumentava. Ero ben sveglio ma pur stando all'erta mi ostinavo a rimanere in cuccetta.
Solo quando il sartiame iniziò a sbattere e fare casino contro l'albero maestro ed il vento, che ora veniva a folate, cominciò a ululare, capii che non era il caso di traccheggiare oltre. Salii in coperta e mi apparve cala maestra satura di imbarcazioni i cui segnali luminosi di nave all'ancora, mi dette l'esatta idea dello sballottamento che subivamo. C'era il rischio per il modo in cui eravamo ormeggiati, di urtare contro altre barche, così anche se a malincuore, fu necessario cercare un nuovo ormeggio e più al riparo possibile.
Intanto i miei compagni che pure si erano svegliati, salirono in coperta per capire cosa stava succedendo. Spiegai loro la situazione e le mie intenzioni. Trovandoli consenzienti e disponibili a collaborare, non posi altro tempo in mezzo.
Misi in moto il Fariman e feci issare a bordo l'ancora che in un primo momento non pareva intenzionata a staccarsi dal fondo; ci volle il mezzo marinaio con il quale, una volta afferrato il galleggiante che avevo legato alla grippia e messo in tensione la cima, tutto diventò più facile. Usando la retromarcia, andai il più possibile sotto costa sulla destra del faro e quando ritenni di essere abbastanza distante dagli scogli, feci il segnale a Manlio di gettare l'ancora a prua sulla destra seguito da Manrico che ne gettò un'altra sempre a prua sulla sinistra. Feci scorrere le due catene il massimo che mi consentiva la distanza dagli scogli e solo quando fui certo che le due ancore avevano fatto presa sul fondale, le fissai bene ad una galloccia. Successivamente presi una grossa cima, ne detti un capo a Manlio e con l'altro capo, salii sul barchino, mi avvicinai e detti un giro a quello scoglio che mi parve più adatto alla bisogna. Dopo tornai in barca e fissai i due capi ad una altra galloccia.
Finalmente potei prendere un maglione e un cappellino di lana, mi accovacciai nel pozzetto di poppa e lì rimasi cercando in qualche modo di ripararmi dal vento che ormai ululava. I miei cugini erano nuovamente scesi nelle loro cuccette, mentre Aligi per tutto questo tempo, non si era fatto vivo, forse aveva pensato bene di continuare a dormire.
La barca così ancorata aveva acquistato in stabilità ed in sicurezza, così in qualsiasi momento la situazione lo avesse richiesto, potevo filare la cima e partire.
Nonostante tutte queste precauzioni passai la notte all'addiaccio nel dormiveglia e solo verso l'alba ebbi la visita di un cugino, l'altro, che salendo in coperta mi chiese come si doveva comportare avendo a sua volta necessità di soddisfare un bisogno corporale. Pensai bene di prendere un secchio, metterlo nel pozzetto di poppa e farlo usare ... come un vaso da notte.
Dato le condizioni del mare, avevo ritenuto pericoloso far ripetere anche a lui l'operazione del giorno prima. Rimase talmente soddisfatto, che ricambiò la cortesia portandomi poco dopo, un buon caffè bollente.
Passammo tutta la giornata e la notte successiva immobilizzati sulla barca senza che il tempo migliorasse gran che. Cala Maestra era abbastanza riparata, ma non ne potevamo più per l'inoperosità cui eravamo costretti; così, all'alba del mattino seguente, approfittando di un momento di tregua del vento, decidemmo di partire.
Prima misi in moto, poi filai la cima a terra e andando avanti adagio feci recuperare le ancore. Messa la prua al vento, alzai la randa avendo in precedenza terzarolato e come mi allargai quel tanto da non correre rischi di collisione con le altre barche in rada, spensi il motore e alzai la tormentina. Virai di qualche grado a destra e le vele sentirono subito il vento piegando pericolosamente la barca che filò via che era un piacere.
Feci rotta su Marina di Campo evitando in tal modo di fare di fare troppi bordi e avendo pure calcolato che con quel vento nel giro di due ore ci saremmo trovati a ridosso dell'Elba e al riparo.
Non fu una traversata delle più tranquille. In certi momenti il vento superava i 3O nodi e alcune raffiche più intense delle altre mi convinsero ammainare la randa . Pure con la sola tormentina non perdemmo gran che di velocità e l'unico danno che subimmo o meglio che subì Manlio fu la perdita della sua barchetta, spazzata via da un colpo di vento. Per il vero tentò di convincermi a un possibile recupero, ma con quel mare e con quella ciurma non me la sentii di fare una strambata e continuai per la stessa rotta.
Come previsto, man mano che ci si avvicinava all'Elba, le condizioni del mare andavano sempre più migliorando e mi fu possibile alzare nuovamente la randa e sostituire la tormentina con il fiocco.
Ci sentivamo sollevati ed anche i meno esperti sembravano ormai dei lupi di mare, almeno a parole, dato che a tutti tornò la parlantina...ed anche l'appetito.
A Marina di Campo trovammo il porto pieno come un uovo e dovemmo sistemare la barca in terza fila; però finalmente, dopo tre giorni, potevamo scendere a terra.
Pernottammo a Marina e solo all'indomani puntammo su Marciana facendo, come all'andata, i villeggianti con soste nelle varie baiette e gli immancabili tuffi in mare.
Per un paio di giorni gironzolammo facendo il periplo dell'isola almeno due o tre volte sempre con ospiti nuovi e in quantità oltre il consentito, ma come potevamo fare una selezione tra amici tutti entusiasti di fare un giro in barca.
Comunque tutto andò per il meglio, per sicurezza usai quasi sempre il motore e avendo l'accortezza di non fare soste in zone molto frequentate....e ventilate.
Ebbi modo di dedicarmi anche alla pesca, ma soprattutto facemmo dei bagni meravigliosi e ci arrostimmo al sole.
Venne anche il momento di rientrare e contrariamente a nostro signore che il settimo giorno riposò, noi lo dedicammo al ritorno. Intanto per cambiare soffiava un discreto scirocco, ma questa volta, dato che andavamo verso nord, ci permise un'andatura allegra e una navigazione tranquilla.
Ci rinfrescammo con un tuffo in mare all'altezza delle secche di Vada e proseguimmo per Livorno che lasciammo dopo non molto sulla destra.
Ormai eravamo quasi al traverso di bocca d'Arno quando subentrò una bonaccia da rendere inutili le vele e per progredire, fummo obbligati a fare uso del motore.
Subito dopo, nello spazio di pochi minuti, successe il finimondo: in un silenzio mortale sopra le nostre teste si formò una cappa di piombo che oscurò completamente il sole. Come da un preciso comando cominciò a tuonare, prima lontano al largo, poi sempre più vicino e i lampi provenienti da tutte le direzioni e che ci cadevano intorno illuminavano la scena con squarci improvvisi e spettrali.
Si alzò un vento gelido ed il mare, come risentito da tutto questo trambusto, cominciò a muoversi con un ritmo sempre più incalzante; dopo venne il diluvio.
Eravamo a non più di un miglio dalla costa e mentre mi attaccavo al radiotelefono per mettermi in contatto con Viareggio, vidi Manrico veramente terrorizzato. Si era messo il salvagente e molto concitatamente mi chiese se non era il caso di abbandonare la barca, raggiungere la riva con il battello in dotazione auto gonfiabile. Capii che se subentrava il panico poteva succedere di tutto e così cercai di convincerlo e convincere me stesso di non perdere la testa, di stare tranquilli che non eravamo in una situazione così drammatica, quando finalmente Viareggio rispose. Alla mia richiesta della situazione, mi si fece chiaramente intendere che con il tempo in quelle condizioni non era assolutamente il caso di entrare nel porto, perché troppo rischioso.
A questo punto non avevo che due possibilità, o andare al largo e aspettare un miglioramento del tempo, oppure tornare indietro. Optai per quest'ultima soluzione. Virai di 18O gradi e con il motore al minimo, di vele nemmeno parlarne dato che non era assolutamente il caso di lasciare il timone in mano ad altri, una volta messo la barca nella condizione migliore per affrontare quel mare andando verso il largo, feci nuovamente rotta sul porto di Livorno.
Ci fu da soffrire non poco ma andò tutto a meraviglia. Anche Manrico, al quale man mano che procedevo spiegavo quali erano le mie intenzioni, aveva superato quel momento di crisi ed ora si rendeva conto di essersi lasciato andare un pò troppo, pur continuando a ripetermi che non sapeva ancora se ce l'avremmo fatta.
Invece ce la facemmo. Arrivammo al porto ballando come dannati e una volta dentro, al riparo, la successiva immobilità della barca per poco non mi fece un brutto scherzo allo stomaco, ma per fortuna passò quasi subito. Attraccammo e scendemmo a terra.
Io credo che la gioia di Cristoforo Colombo quando sbarcò sulla spiaggia di Samanà scoprendo di fatto le americhe, sia stata ben poca cosa rispetto a quella che manifestò Manrico. Non stava più nella pelle e la sua euforia contagiò anche noi. Telefonò subito a casa sua affinché qualcuno ci venisse a prendere in macchina e dopo ci volle a cena nella sua villa a Lido di Camaiore.
Il giorno successivo, in treno, accompagnato da un amico tornai a Livorno, recuperai la barca e facemmo il viaggio di ritorno con un mare che era una tavola. Solo come mettemmo piede sul molo di Viareggio ritenemmo giunto il momento di porre la parola fine a questa avventura.
Fu un argomento in più di cui parlare in occasione delle nostre cene nelle serate invernali e proprio in una di queste circostanze, Manrico candidamente mi confessò che, a seguito di quell'avventura, aveva ritrovato gusto alla vita: in quei momenti, a suo giudizio, si era sentito così vicino alla fine, che da quel giorno come non mai, aveva ricominciato ad assaporare appieno la gioia di vivere.
Può sembrare retorico, ma è quanto mi disse e posso assicurare che non stava scherzando.
Purtroppo questa sua gioia durò solo per pochi anni ancora e ormai anche di lui non resta che il ricordo, ma debbo dire un gran bel ricordo di buon cugino e ottimo amico. (metà degli anni 7O.)
(Racconti senza ritorno-ricordi del mare-1997)
(Con Marco in navigazione lungo la costa orientale della Corsica, destinazioone Porto Vecchio)
Pan Pan
Ogni anno, come si avvicinava la stagione estiva, due erano le cose da fare e che ritenevo importanti, sistemare la barca (per questo bastava pagare) e cercare l'equipaggio. Già perché per fare i programmi c'era stato tutto l'inverno a disposizione, ma non era certo il periodo giusto per contattare le innumerevoli persone disposte a passare qualche settimana in mare, perché, tutte indistintamente, al momento della partenza che normalmente avveniva nel mese di Luglio, come la neve al primo sole, se la squagliavano. La musica era sempre la stessa: "Sai la moglie, i figli ...". Mica che disdegnassero una bella gita in barca di un giorno o due magari andare a Porto Venere, fare una mangiata di pesce e rientrare, anzi, c'era la coda per questo, ma parlare di periodi più lunghi niente da fare.
Alla migliore delle ipotesi si barcamenavano con un ni che poi era immancabilmente no.
Memore di queste esperienze, quell'anno rinunciai a priori di prendere approcci e pensai che tutto sommato Ennio non mi avrebbe tradito; eravamo affiatati e in due il Pagudi era governabile. Questo importava e se all'ultimo momento c'era qualche volontario, meglio, ma non volevo in alcun modo esserne condizionato; era troppo importante, si trattava delle mie ferie.
Partimmo ai primi di Luglio in una sera di bonaccia dopo avere consumato un leggero pasto in un ristorante di Viareggio.
L'unico presente alla nostra partenza era Fucile il boss del porto quella sera stranamente gentile, forse ancora scioccato dall'incasso per il parcheggio del posto barca dell'ultimo trimestre avvenuto qualche ora prima.
Il pomeriggio lo avevamo trascorso a fare acquisti nei vari negozi di alimentari, alla pompa del carburante e dell'acqua e non ultimo nella ricerca di ghiaccio perché in barca, birra fresca e caffè bollente non dovevano mai mancare.
Un' occhiata alla carta nautica così per scrupolo, la rotta la sapevo a memoria e via con la prora nel buio più profondo con destinazione Capraia. Erano questi i momenti che più mi affascinavano. Avevamo issato le vele e col l'ausilio di una leggera brezza si procedeva nel silenzio più assoluto rotto solo dal leggero sciacquio contro la chiglia della barca.
Qualche raro lumicino in lontananza ci rammentava l'esistenza di altri natanti ma quello che era il vero palcoscenico e che se la faceva da padrone era il cielo con la sua miriade di stelle. Ne avevo scelta una e su quella seguivo la mia rotta; era meglio che guardare la bussola, anzi, così facendo evitavo il zigzagare della barca come a volte capita quando si insiste troppo su di essa per controllare l'esattezza della rotta da seguire.
Tutto procedeva per il meglio, tutto era perfetto e quel l'andare nella più completa oscurità stimolava la mia fantasia e permetteva di immergermi nei miei pensieri senza con questo togliere al subcosciente il gusto e la gioia di assaporare quello strano malessere che sempre prende di fronte a quel procedere nel mistero della notte, che sembra non abbia mai fine.
Ma arrivava la fine, eccome. Si presentava con le sembianze di una delicata aurora per subito dopo trasformarsi in un alba radiosa, per poi raggiungere il massimo, esplodendo in una giornata di luce e di sole.
Solo allora chiesi il cambio al timone e me ne andai in cuccetta per fare un pisolino.
Mi svegliò il rumore del motore, salii in coperta ed Ennio mi stava aspettando per la manovra di attracco; eravamo arrivati in Capraia. Ammainammo le vele e visto un piccolo spazio libero sul molo tra una barca e l'altra, con il motore al minimo, attraccammo di poppa.
Rimanemmo in Capraia tutto il giorno bighellonando sul molo a curiosare e solo all'alba del successivo riprendemmo il largo facendo rotta prima su Bastia e successivamente per Campoloro.
Quando bazzicavo la costa orientale della Corsica non mancavo mai di fare una sosta in quel porto turistico anche se di bellezze naturali ne offrisse ben poche. Però aveva il vantaggio di essere attrezzato e all'attracco si poteva usufruire della corrente elettrica e dell'acqua dolce e non era poca cosa. Inoltre a qualche chilometro c'era il ristorante del mio amico Pan-Pan con le sue leccornie. Non potevo mancare.
Non era passata mezz'ora dalla mia telefonata che lo vedo sbucare da una curva alla guida di una vecchia auto scoperta. Portava un cappellone messicano e gli mancava solo il cinturone e la pistola per fare ... Pan-Pan.
Salutò come sempre con molta effusione: "ciao lucchese" e mi invitò a sedere davanti accanto a lui, mentre Ennio prese posto sul sedile posteriore e con una partenza da mille miglia in pochi minuti ci depositò al suo ristorante.
Con una modica spesa si mangiava e bene, però non potevamo scegliere dalla lista; si doveva accettare quello che passava il convento ma non c'era pericolo di rimanere delusi.
Agli amici che andavano in Corsica non mancavo mai di consigliare loro una visita al suo ristorante; bastava che dicessero "mi manda il lucchese" e stai certo che ricevevano un trattamento che non avrebbero dimenticato tanto facilmente.
Aveva instaurato l'usanza che gli ospiti (a suo insindacabile giudizio) ritenuti di un certo riguardo o comunque a lui simpatici, la sera a cena venivano invitati alla sua tavola e questo onore io e chi con me, lo aveva quasi sempre.
Pare che il suo soprannome derivasse da fatti accaduti in un tempo poi non tanto lontano e collegati da una certa sua vocazione per il grilletto facile; poi considerando che da buon corso amava follemente i francesi, si può immaginare il resto. A questo riguardo però mai aveva lasciato trapelare qualche cosa; a volte mollava una frecciata o due che per il vero non lasciavano dubbi, ma tutto poi finiva quasi subito con una risata e fu proprio per questo motivo che quella sera mi sorprese.
Tra un bicchiere e l'altro mi chiese a bruciapelo: "lucchese dato che vai in Sardegna e mi risulta che ci si trovano buone pistole, quando torni indietro perché non me ne porti una?".
Lo guardai bene in faccia per convincermi che fosse uno scherzo ma non ebbi questa impressione, tutt'altro.
Cosa rispondere? Volevo uscirne con una battuta senza urtare la sua suscettibilità e magari, se lo avesse creduto, dandogli pure l'opportunità di rimediare e salvarsi ... in corner.
"Pan-Pan per quanto ne so io, quello che merita esportare dalla Sardegna è il pecorino ..." mi interruppe: "Già proprio così lucchese guarda che ci conto". Certo se i suoi riflessi nello sparare erano come quelli dimostrati nella circostanza, non c'è che dire, meglio averlo per amico...
Comunque andò così: pur avendo programmato al ritorno di navigare la costa occidentale della Corsica, decidemmo di fare nuovamente l'orientale e avere così l'opportunità di consegnare all'amico Pan-Pan una bella forma stagionata di Pecorino sardo che, nemmeno a dirlo, fu letteralmente divorata la sera stessa del nostro ritorno a Campoloro.
Non ci fu verso di pagare la cena (avevo con me altri due amici pescati a Santa Teresa di Gallura e facemmo le ore piccole in compagnia dell'immancabile Pastis.
Quando con la sua fuoriserie ci riaccompagnò alla barca, le sue ultime parole furono "lucchese sai cosa ti dico? Nemmeno noi abbiamo un Pecorino così buono".
Detto da un corso c'era proprio da crederci.
(Di prima mattina costeggiando, ancora assonnato)
L'Europa unita (parte prima)
Eravamo appena arrivati al porto di S.Florent, non avevamo ancora messo gli ormeggi, quando un tizio, che poi si dichiarò essere un addetto al servizio del porto turistico, ci apostrofò in malo modo perché in testa d'albero come bandiera di cortesia aveva notato quella francese, ma non la corsa. "Non siamo in Francia" ci disse "ma in Corsica".
Cominciamo bene, pensai, ma onde evitare spiacevoli discussioni scesi sotto coperta, presi la bandiera mancante e che avevo usato tutta l'estate precedente perciò quasi a brandelli, risalii in coperta e risposi "veniamo da Nizza, questo è il primo porto corso che tocchiamo, ci dia almeno il tempo materiale di issarla".
Non era affatto vero, si proveniva da Viareggio e, anche se per poco, avevamo fatto sosta a Bastia e Macinaggio, ma lo dissi per evitare inutili polemiche, anche in considerazione che non aveva tutti i torti; magari il modo nel quale si era espresso, lasciava molto a desiderare.
In realtà il giorno precedente non mi ero eccessivamente preoccupato dato che, nella costa orientale della Corsica, tutto procedeva in modo ben diverso e con gli isolani ci si intendeva molto meglio; ma sapendolo, avrei dovuto evitare quella stupida dimenticanza che poteva anche creare incresciosi malintesi.
Quel tizio quando vide in che condizioni era la bandiera, ne fu favorevolmente impressionato e addirittura ci aiutò ad ormeggiare la barca. Ritenni che quel gesto fosse un modo come un altro per farci capire che eravamo scusati.
Le bandiere nella barca erano tutte in pessime condizioni perché, prima di sostituirle, dovevano essere ben consumate ed invecchiate dall'erosione dell'acqua salata e del vento. Non occorreva molto tempo per questo, chi possiede una barca a vela e la usa, ne sa qualche cosa.
Ero partito da Viareggio un paio di giorni prima in compagnia di Ennio e Romano seguendo il solito itinerario Capraia, Bastia e da Bastia, avendo programmato di andare a S.Teresa di Gallura navigando la costa occidentale della Corsica, avevamo puntato su Macinaggio.
L'equipaggio di tre persone per una barca come il Pagudi era l'ideale, il numero giusto per qualsiasi manovra e con spazio a bordo sufficiente per tutti. Inoltre e non era poco, Romano si rivelò un autentico cuoco; in pochi minuti ci rimediava degli spaghetti al pomodoro che erano un portento.
Da Macinaggio, pieno come un uovo di barche ma più che altro di ferri da stiro battenti bandiera Italiana e bandiere ombra, eravamo partiti la mattina presto e doppiando capo Corso eravamo arrivati a S.Florent nel pomeriggio.
Era mia abitudine limitare all'indispensabile la sosta nei porti, a maggior ragione in quella circostanza che avevo programmato di passare qualche giorno in Sardegna nella mia casa di Costa Paradiso, dove in quel periodo avevo la famiglia e magari, avendone il tempo, fare anche una puntata nell'arcipelago della Maddalena.
Gli attracchi alle banchine dei porti li effettuavo di prua perché avevo l'invertitore bloccato e mi era impossibile inserire la retromarcia. Andavo avanti adagio e poi una volta calcolata la distanza che mi divideva dal punto prescelto, spengevo il motore arrivando con l'abbrivio; il mezzo marinaio faceva il resto.
La mattina dopo ce la prendemmo piuttosto calma perché per arrivare a Calvì, prossima tappa, il tratto di mare era relativamente breve.
Partimmo alle sette e il sole era già alto; la giornata si preannunciava afosa e non c'era un alito di vento. Non ci restò che fare uso del motore.
A poco più di un terzo del viaggio, quasi all'altezza dell'Ile Rousse, in una bella insenatura, gettammo l'ancora. Facemmo il bagno ed io mi dedicai anche alla pesca subacquea con qualche risultato. Romano ci fece il solito pranzetto ed il pescato fu annaffiato con un bianchetto che, complice il caldo, lasciò il segno.
Per avere dell'ombra avevamo alzato un telone che continuammo a tenere anche quando ripartimmo, assumendo in tal modo una andatura ed un modo di navigare vacanziero, non certo da uomini di mare.
Anche se ci tenevamo abbastanza distanti dalla costa, sapevo di essere in una zona di secche che in precedenza avevo ben individuate sulla carta nautica e avrei dovuto stare ben attento; Non fu così e come capita quasi sempre in mare, fui subito castigato andando a sbattere con la prua delle barca contro uno scoglio che era ad una profondità di circa due metri.
Il mare era limpidissimo, un attimo prima lo avevo intravisto e avevo tentato di inserire la retromarcia, quanto meno per attutire il colpo, ma con l'invertitore bloccato, l'urto fu inevitabile. Ci tuffammo subito per accertare se avevamo subito danni e Romano fu il più svelto, ma per fortuna non era successo niente di grave; solo un piccolo segno a prua, sulla estremità inferiore della deriva, era rimasto a testimonianza dell'incidente, niente di più.
Mi sarei meritato qualche cosa di peggio perché, prima di riprendere la navigazione, avrei dovuto attendere di essere completamente a posto con la testa, lasciando passare i fumi dell'alcool.
Eravamo ormai a due tre miglia da Calvì, quando sulle nostre teste apparvero alcuni aerei che volando a non più di sei settecento metri di altezza, vomitarono in mare un bel numero di paracadutisti completamente armati ed equipaggiati.
Al momento non sapemmo darcene una spiegazione di quel fuori programma, ma una volta arrivati a Calvì ci fu ricordato che era il 14 Luglio giorno della presa della Bastiglia.
Arrivammo giusto in tempo per assistere alla parata militare di alcuni reparti della legione straniera di stanza in loco e debbo dire che tutto questo, unito al nervosismo che si leggeva nelle facce di gran parte della gente assiepata ai lati della strada, non mi lasciò completamente tranquillo. Lo spettacolo che veniva offerto aveva più l'aria di una manifestazione di forza che la celebrazione di una ricorrenza.
Intanto si era fatto sera e quando decidemmo di andare a mangiare qualche cosa, optammo per una trattoria vicino al porto, che aveva più che altro l'aria di una bettola, comunque prima di entrare, mi raccomandai con Ennio e Romano di usare la massima accortezza e soprattutto di non fare commento alcuno su qualsiasi cosa avessero visto od udito.
Il locale, oltre che di fumo e di pastis che correva a meraviglia, era carico di elettricità. Si capiva che gli animi degli avventori erano surriscaldati al punto giusto.
La prima cosa che mi balzò agli occhi fu la totale assenza di militari cosa molto strana specie in simili ricorrenze e pensai che gli ordini erano stati categorici proprio per evitare quello che magari sarebbe successo a noi se non ci allontanavamo al più presto. Avevo visto giusto il pomeriggio nel leggere la tensione che trapelava nelle persone che assistevano alla parata dei reparti della legione straniera.
Tutti e tre senza parlare ci capimmo al volo e decidemmo di non attardarci ulteriormente; Il tempo di prendere una birra proprio per non dare nell'occhio, ma come uscimmo notammo due individui che avevano avuto la nostra stessa idea e che ci stavano seguendo.
Procedemmo direttamente verso la barca attraccata poco distante, con sempre quei giovani che continuavano a seguirci.
Ci raggiunsero proprio sul molo; uno dei due aveva in bocca una sigaretta spenta e chiese un fiammifero. Io non me lo feci ripetere due volte fui il più svelto a saltare in barca che era proprio sotto di noi, ricuperare i minerva posti nel cucinotto e lanciarli a quel giovane che li prese al volo. Si accese con la massima calma la sigaretta, mi restituì allo stesso modo i fiammiferi e con un cenno, che ritenni un saluto, fece dietro-front e seguito dal suo amico, che non aveva aperto bocca, ritornando da dove era venuto.
Che fosse stata una cosa strana è dire poco. Certamente in un primo momento le loro intenzioni non erano delle più amichevoli, ma forse l'aria fresca della sera li aveva rinsaviti, o forse ancora noi non avevamo dato loro il minimo appiglio o pretesto per attaccare briga. Comunque avevamo preso le nostre precauzioni e specie Romano che era il nostro piatto forte, a suo dire, aveva adocchiato sulla banchina una sbarra di ferro che all'occorrenza poteva essere l'arma vincente. Da parte mia scendendo nel cucinotto non avevo trascurato di prendere la pistola lanciarazzi. A mali estremi rimedi estremi. Per fortuna non ce ne fu bisogno e morale della favola, anche quella sera restammo a bordo in compagnia della solita spaghettata. Meglio così, l'indomani ci aspettava una tappa abbastanza lunga che ci avrebbe portato ad Aiaccio.
Partimmo molto presto e per tutta la giornata ci accompagnò un vento di Nord-Ovest non forte ma abbastanza teso da permetterci di veleggiare tutto il tragitto raggiungendo una media di oltre cinque miglia orarie. Lo avemmo sempre al traverso o di poppa.
La costa era molto bella con tutte quelle insenature e promontori sui quali dominavano le solite torri di avvistamento.
Quando non stavo al timone o alle vele il mio divertimento era fare il punto nave o calcolare la velocità della barca. Avemmo un simpatico incontro con una ragazza che in motoscafo completamente nuda e tutta sola, ci tagliò la rotta. Alla sua provocazione ci fu da parte nostra un tentativo di abbordaggio, naturalmente senza esito e tutto finì con grandi risate e ampi gesti di saluto.
Doppiate l'Iles Sanguinaires virammo di circa 9O gradi e dopo poco più di un ora entrammo nel porto di Aiaccio dirigendoci al porto turistico.
Nell'ultimo tratto di navigazione il vento era calato anche perché, entrando nel golfo, la costa che avevamo a sinistra ci riparava dal maestrale.
La città vista dal mare aveva un immagine molto bella e quel gran viale che praticamente partiva perpendicolare alla banchina e andava su dritto da sembrare senza fine, si presentò in tutta la sua bellezza. Eravamo arrivati proprio all'ora del passeggio ed i tavolini dei bar posti sui marciapiedi, brulicavano di gente.
L'impressione era di avere davanti una città cosmopolita e piena di vita; vista nel suo insieme era una immagine da non dimenticare.
Gli attracchi del porto turistico erano dei pontili di legno galleggianti e collegati da una passerella pure di legno. Il tempo di mettere gli ormeggi che si avvicina l'incaricato alla riscossione: ci chiese, mi sembra di ricordare 50 Franchi, l'equivalente di circa diecimila lire per un giorno.
Eravamo rimasti senza un franco e così proposi di pagare in lire, ma non fu possibile, quello voleva solo moneta francese.
La discussione si protrasse a lungo perché noi, oltre che non capire il motivo di questo rifiuto, ci sentivamo anche urtati nella sensibilità di italiani, ma non ci furono ragioni.
In ultimo e per forza la faccenda fu risolta nell'unico modo possibile, ossia non pagando il nolo. Quel giovanotto ci fece un discorso che più o meno suonava così. "Se accetto in pagamento lire italiane i miei superiori mi rimbrottano e magari mi fanno passare un brutto quarto d'ora perché le disposizioni sono ben chiare, allora preferisco non avervi visto e così si salva capra e cavoli ...". Ovviamente noi accettammo di buon grado, pur assicurando che se avessimo trovato da cambiare le lire in franchi, ci saremmo fatti vivi; e così fu. Ricordo che in un negozio acquistammo una bandiera corsa a prezzo di strozzo, per avere il resto in franchi con i quali pagammo l'attracco, e avemmo anche il minimo necessario per comprare pane, pomodori e rifornirci di gasolio. Era sabato e le banche avrebbero aperto il lunedì.
Quell'anno la nostra moneta stava passando un brutto quarto d'ora perché in altre circostanze mai avevo avuto problemi di questo tipo.
Il mattino della domenica togliemmo gli ormeggi e puntammo su S.Teresa di Gallura, limitandoci a guardare Propriano e Bonifacio ... con il binocolo.
Tutto andò liscio portati da un allegro, forse un po' troppo, Mistral che ci consigliò un andatura prudente terzarolando.
Come entrammo nel budello di S.Teresa e non avevamo ancora fissato le cime di ormeggio, avendo avuto qualche difficoltà per l'attracco a causa del vento che ci arrivava al traverso, un graduato della capitaneria di porto ci apostrofò "qui siamo in Sardegna, ammainate quella bandiera ... ". Ammiccando alla bandiera di cortesia corsa che ancora sventolava in testa d'albero. Allora è proprio un vizio pensai, eseguendo senza indugio ... l'ordine.
Quell'anno era proprio destino che i tempi di alza e ammaina bandiera non fossero proprio quelli giusti o quanto meno non collimassero con i tempi di chi avevamo di fronte, sia che fosse un corso od un sardo; gli uni ci anticipavano nel tempo rinfacciandoci l'assenza della loro bandiera, gli altri si ritenevano offesi per il fatto di aver lasciato sventolare quella benedetta bandiera per qualche minuto di troppo in terra sarda. Come non bastasse le lire italiane erano tabù e dulcis in fundo, avevamo pure rischiato una cazzottata. Cosa altro doveva capitarci? Alla buon anima dell'Europa unita. (Seconda metà degli anni 7O.)
(Racconti senza ritorno-ricordi del mare-1997)
(In attesa di ripartire dopo una breve sosta)
Nelle Bocche (parte seconda)
Non era mai capitato di trovarmi in mezzo alle bocche di Bonifacio con una patana e un nebbione di quel genere.
Mi trovavo a Costa Paradiso, dopo aver navigato la costa occidentale della Corsica e ormeggiato il Pagudi nel porticciolo di Santa Teresa di Gallura.
Marco aveva insistito tanto per andare almeno una volta in barca a La Maddalena prima del mio rientro in continente, che una mattina, prendemmo a prestito l'auto di Maria e in meno di un ora arrivammo a S.Teresa. Eravamo in cinque perché si era aggiunto anche un amico di mio figlio, a suo dire pratico di vela e all'occorrenza, pensai, poteva anche essere utile.
Quando salimmo a bordo e furono tolti gli ormeggi, cominciava appena a fare giorno.
Prometteva una bella giornata e mentalmente avevo programmato di fare un bel giro passando dalle isole di Spargi, Spargiotto, fino a raggiungere i Budelli dove avremmo potuto fare il bagno e pranzare sulla spiaggia di corallo come era chiamata, anche se di corallo già allora ce n'era rimasto ben poco.
Anni addietro avevo soggiornato in quella piccola isola invitato dal proprietario che all'epoca era anche comproprietario di Costa Paradiso che stava ancora lottizzando e sapevo pure di essere ben accetto dal guardiano specie se gli portavo qualche pesce, ma di questo ne ho già scritto in precedenza su altro racconto. Purtroppo, come spesso capita andando in barca, tra il dire ed il fare c'era di mezzo proprio lui, il mare. Infatti quel programma fu completamente stravolto.
Improvvisamente, appena usciti dal budello di S. Teresa e fatto una virata a dritta, da nord apparve una gran nube o meglio un enorme manto di color cenere, che avvicinandosi avvolgeva e inghiottiva tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Non passò molto tempo e anche noi ne fummo letteralmente avvolti, diventando completamente ciechi e talmente impreparati da non sapere che pesci prendere.
Tutto era sparito dalla nostra vista e navigare era diventato praticamente impossibile e estremamente pericoloso, sapendo benissimo che, anche se la costa era sparita ai nostri occhi, era sempre li a pochi metri dalla barca pronta a riceverci con la sua scogliera di granito.
Non avevo ancora tracciato la rotta pensando di navigare a vista almeno fino alla punta della Marmorata.
La cosa più sensata sarebbe stata di rientrare in porto, cercare un buco e attendere all'ancora un minimo di visibilità; ma sapevo che avrei incontrato un muro più spesso di quello in cui ci trovavamo per convincere Marco ed il suo amico a rinunciare, sia pure momentaneamente, a quella gita.
Così, anche per evitare discussioni, optai per l'unica soluzione ancora possibile: puntare a nord con bussola a 36O gradi e immergere ancor più la barca e tutti noi in quel grande buio. Così facendo tra l'altro avrei allontanato da me l'insana tentazione di avvicinarmi ulteriormente alla costa per cercare un qualsiasi punto di riferimento. Però più mi allontanavo, più mi sentivo desolatamente solo, immerso in quella maledetta cappa di piombo; non navigavo, ma ero come sospeso in aria, tra cielo e mare anch'essi invisibili.
Le navi che transitavano lanciavano il loro lugubre ululato, mentre Ennio che non vedevo, ma che sapevo a prua, segnalava la nostra presenza con il fischio, nella speranza o meglio nell'illusione di essere udito, nel caso ci fossimo trovati in rotta di collisione con altri natanti.
Quando ritenni di essere sufficientemente al largo, individuai sulla carta il punto dal quale pochi minuti prima eravamo partiti e con la velocità della barca ed il tempo trascorso, oltre che le miglia percorse, potei localizzare il punto nave e tracciare la rotta per la Maddalena. Con sollievo constatai che non c'erano ostacoli e la punta della Marmorata l'avremmo lasciata a un cinquantina di metri sulla nostra destra.
Non c'è che dire, avevamo fatto un bel passo avanti per la sicurezza di noi tutti, barca inclusa, dato che ora in qualsiasi momento potevamo sapere la nostra posizione.
Veramente c'era ancora un certo rischio sapendo che gli spazi di mare specie in prossimità della Punta Sardegna non è che fossero enormi, ma rientravano nella norma. Bastava prestare attenzione ed in cinque come eravamo, con gli occhi letteralmente in mano ed il motore al minimo, avremmo potuto in qualche modo sopperire agli eventuali ed inevitabili piccoli errori, che senz'altro avevo commesso nel tracciare quella rotta prendendo a prestito dei dati che non avevo certo imparato nei manuali del mare. Avevo usato un pò di fantasia ma in particolare mi aveva stimolato la voglia di uscire nel più breve tempo possibile da quella situazione che stava diventando oltremodo imbarazzante e pericolosa.
Ce ne volle del tempo, almeno così credetti, per arrivare
al traverso dell'isola di Spargi. Però ne ebbi la certezza solo quando da ovest si alzò un bel vento che, come per incanto, spazzò via quel nebbione, dando la possibilità al
Sole di sbucare e fare il suo ingresso prima timidamente, poi sempre con più forza, fino ad irrompere prepotentemente, ridando colore e calore a tutte le cose al punto da apparire ai nostri occhi, più bello e splendente che mai.
Però avemmo ben poco tempo per rilassarci: quel vento non scherzava, proveniva da Nord-Ovest e insinuandosi tra le Bocche aumentava d'intensità a vista d'occhio.
In cuor mio però, una volta issato randa e fiocco e spento il motore, mi sentii molto più disteso e ben determinato a contrastare quel maestrale che però, lo capii subito, non faceva presagire niente di buono.
Decisi per la farfalla che stimai essere l'andatura giusta per la direzione del vento e la nostra destinazione; immediatamente la barca si stabilizzò e prese a navigare al massimo delle sue possibilità. Fu un momento esaltante per tutti e anche divertente. Le onde, ormai alte, venivano da poppa ne incrementavano la velocità, già di per se sostenuta. In quella circostanza non permisi a nessuno di sostituirmi al timone anche a costo di subire le solite critiche, sapendo fin troppo bene le conseguenze deleterie che avremmo subito anche per la più piccola distrazione.
Solo successivamente, quando già eravamo nel canale della Maddalena, cedetti il timone a Marco che condussse la barca fino al punto d'ormeggio che avevo scelto, dove erano attraccati alcuni motoscafi della finanza.
Non avrei dovuto perché zona militare, ma avevo con me l'asso nella manica. L'amico di Marco era figlio del comandante della finanza e così, oltre che rimanere avemmo la possibilità, anche approfittando della sosta forzata per il mare ormai in burrasca, di far eseguire alla barca delle piccole riparazioni e cosa più importante, finalmente sistemare l'invertitore di marcia.
In un primo momento ce la prendemmo con santa pazienza facendo nostro il detto di necessità virtù, ma al terzo giorno, accertato che il mare non accennava a calmarsi ancora alimentato da un robusto vento, i giovani cominciarono a scalpitare e stufi di quella forzata inoperosità, non trovarono altro diversivo che tormentare il sottoscritto per convincerlo a fare un uscita, sia pure limitata, nello specchio d'acqua delimitato tra la Maddalena e Palau.
L'amico di Marco si faceva forte della sua esperienza marinara e riteneva esagerata la mia cautela. Io resistetti fin che potei sapendo che non era un mare da prendersi alla leggera, ma come ci si mise anche Marco, per farla corta, in meno che non si dica, mi ritrovai in mezzo al canale a vele spiegate in bolina stretta e con la barca paurosamente inclinata.
Gli oblò non erano stati ermeticamente chiusi e da dritta cominciammo ad imbarcare acqua. Mi resi conto che l'amico, che era al timone, non ce l'avrebbe fatta a tenere la barca; lo vidi nel pallone e al limite di rottura mentre gli scogli a prua si avvicinavano paurosamente. Dovevo prendere il coraggio con due mani e decidere qualche cosa; non andai tanto per il sottile e con uno spintone, che per poco non lo mandò fuori bordo, sostituii quel ragazzo al timone, contemporaneamente misi in moto il Fariman con retromarcia al massimo e timone tutto a sinistra .Fu così che non senza un grande sforzo, potei raddrizzare la barca e mettere la prua al vento.
Solo allora fu possibile ammainare la randa e lasciare gli scogli sulla dritta a non più di un paio di metri; pensare che sarebbero bastati due al massimo tre secondi di ritardo, che la frittata era fatta..
Alla Maddalena, Marco al Timone del PAGUDI con accanto
l'amico eroe della giornata. Anni '70.
Per rientrare alla nostra banchina lasciai armato solo il fiocco, ed il motore in folle, che poi riutilizzai solo al momento dell'attracco.
Avevamo corso un bel rischio ed ancora una volta mi sarei pienamente meritato il peggio. Non dovevo fidarmi del solito sbruffone che sa fare tutto ma a parole e comunque non dovevo lasciarmi in nessun modo convincere.
Non ho memoria dopo tanti anni di mare di essere mai stato così vicino al naufragio.
Visto che è bene quel che finisce bene, non ci volle molto per ridimensionare i fatti di quei giorni, che però mi rimasero ben impressi in un angolino della mente e senza alcun dubbio mi arricchirono ulteriormente di quell'esperienza che è necessario fare giorno dopo giorno sulla propria pelle. Comunque credo proprio che anche dopo una vita vissuta in mare, non si è mai imparato abbastanza, tante sono le situazioni e sempre diverse, che si vengono a creare.(Seconda metà degli anni 7O.)
(Racconti senza ritorno-Ricordi del mare -1997)
(In navigazione)
Dalle Bocche all'Elba (parte terza)
Avevo deciso che saremmo partiti molto presto la mattina del giorno successivo.
Nemmeno a farlo apposta durante la notte si era levato un bel ponente e nello spazio di pochi minuti il mare cominciò a rumoreggiare ed a sbattere contro la scogliera. Visto come stavano andando le cose, sarebbe stato saggio cambiare programma ed attendere quanto meno un miglioramento del tempo, ma tutto questo voleva dire rimandare la partenza di almeno tre giorni. Così all'alba convinsi Maria di accompagnarmi, assieme a Romano ed Ennio, al porto di S.Teresa.
Una volta arrrivati la consigliai di ritornare a Costa Paradiso mentre noi avremmo deciso sul da farsi nel corso della giornata e casomai, se la partenza fosse stata rimandata, le avrei telefonato. Lo dissi più che altro per tranquillizzarla, perché sapevo benissimo che questa eventualità era piuttosto remota.
Infatti una volta sul Pagudi e controllato tutto fosse in ordine e non mancasse proprio niente, in un momento nel quale il vento, che nel frattempo era passato da ponente a maestrale, sembrò diminuire di intensità, misi in moto il Fariman e feci togliere gli ormeggi.
Tutti e tre avevamo indossato gli incerati e sotto di essi dei maglioni di lana ed in testa una cuffia pure di lana perché, provare per credere cosa succede quando in piena buriana l'acqua ti schiaffeggia con forza e inzuppa gli indumenti. Se non c'è la possibilità di farsi dare il cambio sia pure per un momento al timone per mettere qualche cosa di asciutto addosso, il freddo entra nelle ossa e non molla più. A chi è capitato come a me anche una sola volta, non potrà più ripetersi.
Come ci staccammo dalla banchina e furono alzate tormentina e randa precedentemente terzarolata, spensi il motore. Da quel momento, per tutta la traversata delle bocche le nostre orecchie udirono solo l'ululato del vento e lo sbattere delle onde sulle fiancate della barca.
Partimmo sparati e subito la forza del vento inclinò il Pagodi di 45 gradi. Per tutta quella gente che nel frattempo si era radunata sulla banchina e non perdeva una sola manovra, certo dovevamo essere un bel colpo d'occhio. Nelle loro facce si leggeva un misto di stupore e incredulità, ma potevo pure immaginare cosa passava in quei momenti nelle loro capocce; certamente si saranno detto e non a torto, quanta poca materia grigia dovevano contenere, per affrontare le bocche con il mare in quelle condizioni.
In realtà era un rischio calcolato e per precedenti esperienze sapevo esattamente cosa ci attendeva. Avremmo dovuto stringere i denti per un paio d'ore, ma dopo a ridosso prima di Lavezzi e poi della Corsica, le cose sarebbero cambiate e di molto. Il mistral si sarebbe trasformato in un bel vento di terra che ci avrebbe accompagnato fino a Porto Vecchio e con un pò di fortuna anche oltre. In ultimo, sempre gradualmente sarebbe diminuito ancora, fino a diventare una leggera brezza.
Certo che avremmo sofferto, ma rischi non ne vedevo; con quelle vele e con quel vento che avremmo avuto sempre al traverso, saremmo volati sulle onde. Fu una lotta, ma esaltante e mai mi sentii in difficoltà. Lasciammo l'isola di Lavezzi sulla nostra sinistra e poco dopo tutto cambiò in meglio. Eravamo infreddoliti e bagnati come pulcini, ma felici. Ora ci aspettava una bella giornata di sole e di relax.
Il bello del mare è proprio questo perché dà forti emozioni per i suoi improvvisi cambiamenti. Mette a dura prova tutte le capacità ed i nervi fino quasi al limite di rottura e magari poco dopo, generosamente ricompensa a tal punto da far urlare di gioia nel sentirsi così pienamente appagati, immersi dentro quelle immensità di cielo e di mare, dove ti senti al centro del mondo. Quella leggera brezza, satura di sale che sfiora la pelle, è come la mano di una dolce fanciulla che accarezza il tuo corpo, perché concede le stesse emozioni e gli stessi brividi di piacere.
Queste ed altre sensazioni provavo mentre si procedeva verso nord spinti da un venticello che cercavo di sfruttare al massimo con tutte le vele al vento. Ogni tanto dai valloni orientali della Corsica si incanalava investendoci con qualche raffica e una volta, rilassati come eravamo avendo abbassato la guardia, non potemmo evitare una strambata per fortuna senza danni, ma solo con un po'di paura. Entrammo nell'ampio golfo di Porto Vecchio e anziché fare il lungo canale, unica via di accesso al porto, come trovammo una insenatura, gettammo l'ancora.
Pernottammo sul posto e alle prime luci dell'alba iniziammo la giornata con un tuffo in mare. Poco dopo partenza per Montecristo.
Non mi ero preoccupato gran che durante le prime ore di tenere scrupolosamente la rotta e successivamente, per non correre rischi, non avendo riferimenti a terra, captai con l'eco scandaglio una secca sugli ottanta metri che precedentemente avevo individuato sulla carta nautica. Su quella ne tracciai una nuova che per la verità si differenziava dalla precedente solo di qualche grado a dritta, forse dovuto allo scarrocciamento. Comunque nel pomeriggio, in lontananza, proprio sulla prua del Pagudi, apparve Montecristo.
Solo allora, casualmente, ci accorgemmo che la stiva della barca era piena d'acqua che stava pure insidiando il cucinotto e la zona notte. Dopo un primo momento di panico non conoscendone la causa, finalmente ci accorgemmo che il motore anziché rigettare in mare l'acqua che pescava per il suo raffreddamento, la scaricava nella stiva. Mettemmo in funzione la pompa di sentina la quale, vedi caso, poco dopo fece cilecca e così non ci restò che continuare l'operazione con la pompa manuale di riserva. Se volevamo arrivare a Montecristo non avevamo altra scelta che alzare le vele e sfruttare quella bava di vento che nel frattempo si era alzata e che, quasi a notte fonda, ci permise di raggiungere la baia dell'Ubriaca.
Questa baia ha un fondale di tutto rispetto e nel gettare l'ancora fummo costretti a mollare tutta la catena a disposizione.
Avevo letto non ricordo dove, che il nome di baia dell'Ubriaca gli era stato dato da quando, verso la metà dell'ottocento, un veliero che trasportava un carico di vino, preso da una tempesta aveva fatto naufragio in quella insenatura, nel vano tentativo di mettersi al riparo.
Il mattino successivo non volendo rischiare, alzammo le vele con la speranza di trovare un bel vento. In qualche modo arrivammo a cala Maestra e fortuna volle che dei pescatori di Ponza che avevano gettato le reti non distante e che stavano rientrando a Marina di Campo, base che avevano scelto per loro la stagione estiva, ci offrirono uno strappo, evitandoci in tal modo una ben triste giornata con la barca praticamente ingovernabile per la completa assenza di vento.
Arrivammo al porto di Marina di Campo che era l'ora di pranzo, e proprio mentre stavo per ormeggiare, da sotto coperta con perfetta sincronia, apparve Romano vestito di tutto punto da cittadino con al seguito la valigia; mi fece un largo gesto, che nel momento non seppi interpretare ma subito dopo capii essere un marameo mascherato a saluto. Fece un bel salto atterrando sulla banchina del porticciolo, prima ancora che ci fossimo completamente accostati e con quel salto ... mi si dimezzò l'equipaggio.
Lo rividi solo dopo qualche giorno a Lucca. Forse si era reso conto, anche se con un certo ritardo, che per il suo carattere la vita in barca era troppo movimentata, ma anche, ne sono certo, che tra la sua pelle ed il solleone c'era una incompatibilità congenita, avendone constatato, giorno dopo giorno su di essa, gli effetti deleteri. Quasi certamente la traversata da porto Vecchio a Montecristo, con quella bonaccia, era stata la famosa goccia oltre la quale non c'era rimasto spazio neppure per il più piccolo spiraglio ... ai raggi di Sole, che avrebbe dovuto subire l'indomani, una volta riparato il motore, per raggiungere Viareggio, nostro ultimo approdo. (Seconda metà degli anni 7O.)
(Racconti senza ritorno-Ricordi del mare-1997)
(Isola di Montecristo-all'ancora nella baia dell'Ubriaca)
In mare con la Laurina
Nel 1973 con una barca a motore entrobordo di proprietà di mio cugino Manlio, la Laurina,
assieme ad altri due suoi amici, partendo da Viareggio, facemmo rotta per l'Elba da dove
proseguendo verso l'Argentario, toccammo il Giglio, Montecristo arrivando all''isola di Giannutri, ultima tappa.
Prima di mettere la prua a NORD per il rientro, facemmo una bellissima sosta di un paio di giorni e con modica spesa fummo ospitati nei locali che c'erano allora e che si vedono in una delle foto, non trascurando di visitare , tra l'altro. i resti della villa Romana.
Una esperienza da non dimenticare, che anticipò di non molto le tante altre, ben più importanti con il "Pagudi".
Le foto che seguono ricordano questa piccola crociera.
( A Giannutri con la barca di Manlio - 1973 )
( Con la Laurina a Montecristo )
( In navigazione dall'Argentario a Giannutri )
( Montecristo, a Cala Maestra )
All'Isola del Giglio
La tragica fine della nave da crociera Concordia che a seguito di una maldestra manovra di avvicinamento per effettuare l'inchino agli abitanti dell'isola del Giglio andò a sbattere su uno scoglio, inevitabilmente mi ha riportato con la mente in dietro di oltre cinquant'anni.
Fu nell'estate del 1959 che con Maria, Marco di appena tre anni e altri amici decidemmo di andare in quell'isola dell'arcipelago Toscano per passarci le vacanze. Eravamo in otto divisi in due famiglie più Lot il mio cucciolo di pastore tedesco.
Per quanto possa ricordare fu uno degli ultimi anni che facemmo uso della tenda. Era stata una lunga serie ininterrotta iniziata nei primi anni cinquanta all'Elba, poi proseguita a Baratti, in Capraia e altre zone di mare. Negli anni successivi (a parte le avventure alle isole di Panarea e Pianosa fatte nel 60 e 61) anche nel tentativo di ripristinare le ferie con tutta la famiglia unita, acquistai una roulotte e ne feci uso fintanto che non ebbi l'opportunità di acquistare un terreno e costruire in una costa completamente vergine che poi prese il nome di Costa Paradiso.
Arrivammo a Porto Santo Stefano ognuno con i propri mezzi che parcheggiammo con una modesta spesa nella proprietà di un abitante del luogo e con armi e bagagli barca inclusa, ci imbarcammo.
Appena a bordo ci fu un piccolo diverbio con il comandante del traghetto che mi invitò a mettere la museruola al cane . Capii che non era il caso di contraddirlo rinunciando a spiegare che si trattava di un cucciolo, preferendo distrarmi e seguire la manovra di uscita dal porto. Il traghetto, immediatamente dopo, in mare aperto messa la prua sul Giglio visibile ad occhio nudo, in meno di un ora ci portò nel bel porticciolo dell'Isola.
Arrivammo a Porto Santo Stefano ognuno con i propri mezzi che parcheggiammo con una modesta spesa nella proprietà di un abitante del luogo e con armi e bagagli barca inclusa, ci imbarcammo.
Appena a bordo ci fu un piccolo diverbio con il comandante del traghetto che mi invitò a mettere la museruola al cane . Capii che non era il caso di contraddirlo rinunciando a spiegare che si trattava di un cucciolo, preferendo distrarmi e seguire la manovra di uscita dal porto. Il traghetto, immediatamente dopo, in mare aperto messa la prua sul Giglio visibile ad occhio nudo, in meno di un ora ci portò nel bel porticciolo dell'Isola.
Una volta scaricato sulla banchina il materiale, appena il tempo di guardarci attorno per decidere il da farsi per poter raggiungere la spiaggia del Campese meta prefissata, che avvistammo la persona giusta.
Aveva un camioncino scoperto e una volta informato delle nostre intenzioni, propose di portarci a destinazione. Senza neppure trattare il prezzo in due balletti caricammo e partimmo. Provare a fare il contrario e magari chissà correre il rischio di effettuare il trasferimento pedibus calcantibus o alla migliore delle ipotesi via mare con una barca presa a nolo e chissà a che prezzo.
Non avemmo motivo di pentirci della scelta che tra l'altro si rivelò pure poco costosa.
Il tragitto che seguivamo, sarebbe stato arduo definirlo una strada anche se bianca, tutta buche e sassi com'era. Ci fu una salita che mise a dura prova il motore del furgone carico fino all'inverosimile e la successiva discesa fu fatta tra un traballone e l'altro ma anche se ammucchiati, in mezzo ai sacchi, tende, approvvigionamenti vari e barca, questa situazione anzichè deprimerci e scoraggiarci, finì per creare in tutti noi una atmosfera festaiola.
Come arrivammo anche se con qualche ammaccatura di troppo, eravamo a dir poco euforici perchè dalla visione che ci apparve, capimmo che la permanenza in quel luogo non ci avrebbe deluso.
Ci trovammo di fronte ad una bella spiaggia in una baia a Nord Ovest del Giglio che a contatto con il mare, al bagno asciuga, creava un contrasto di grande effetto. Eravamo arrivati al Campese la nostra meta. Notammo solo alcune casette o meglio alcune tettoie come le chiamiamo noi, che si contavano sulla punta delle dita di una mano e un piccolo locale, un punto d'incontro dove e lo capimmo dopo, si poteva anche bere qualche cosa la sera dopo cena. La civiltà iniziava e finiva qui. Nella parte della baia più a sud, la punta Faraglione protesa com'era verso il mare, dava l'impressione di un abbraccio protettivo alla baia medesima e la torre del 700 in bella vista su uno scoglio a pochi metri dalla riva, potendolo chissà quante cose avrebbe avuto da raccontare. Per completare il quadro non mancava il faraglione che a ragione, per la sia dimensione e posizione visiva poteva tranquillamente essere scambiato per il monumento alla virilità.
Gli unici abitanti che notammo, fu un gruppetto di giovani, una decina in tutto, ben assortiti tra maschi e femmine. In seguito facemmo gruppo e anche se francesi non avemmo difficoltà a fraternizzare. Da loro medesimi venimmo a sapere che erano alloggiati in alcune di quelle casette che avevamo notato.
Pagammo il conducente, ci accordammo per il ritorno e non ci restò altro che scegliere un posto per installare il nostro piccolo accampamento.
Le mogli intanto erano già alle prese per preparare un frugale pasto, che fu consumato poco prima che il sole tra un tripidio di colori infuocati, scomparisse all'orizzonte tuffandosi in mare.
A distanza di tanti anni viene fatto di pensare: "ma cosa mai facevamo dalla mattina alla sera" e francamente trovo difficoltà a rispondere.
Tutto si svolgeva in modo naturale: mare e poi mare, pesca, gite in barca, pasti spartani anche se gustosi e la sera stanchi ma felici dopo un ultimo sguardo al
tramonto che non mancava mai di esaltarci, alle prime ombre della sera, eravamo già in tenda tra le braccia di Morfeo.
Qualche sera andavamo in quel localetto che avevamo visto e l'unico lusso che potevamo concederci, era una birra.
La cosa di cui veramente sentimmo la mancanza, in modo particolare le donne, fu l'acqua. Dovevamo approvigionarci ad una misera fontanella sistemata in modo rudimentale su un terreno rossiccioso e l'acqua che sgorgava aveva pure un sapore di ruggine. Ci andavamo nel tardo pomeriggio con dei contenitori, facendo la coda e anche se eravamo in pochi , non impiegavamo mai meno di un ora per riempirli. Quello fu l'unico vero neo, ma ben poco rispetto a quel tanto che in ogni istante della giornata ci potevamo godere.
Non ci era certo sfuggita la presenza del Castello, lassù in alto ad oltre 400 metri di altezza che dominava tutta l'Isola. Avevamo pensato di andarci e quasi alla fine delle nostre ferie, finalmente quel giorno arrivò.
Non fu impresa da poco. Partendo nella tarda mattinata, credevamo di passare una giornata rilassante come si può fare durante una gita in campagna, ma man mano che si progrediva, a nostre spese capimmo che sarebbe stata una gita molto impegnativa specie per le donne e i ragazzi. Per fortuna ci venne in aiuto il solito ometto, un isolano, al quale ci accodammo lungo la mulattiera e il mulo che aveva al suo seguito, si mostrò di grande utilità sobbarcandosi a turno sulla groppa il peso dei ragazzi e delle donne, mentre a noi maschi non restò che la sua coda non meno utile e alla quale ci attaccavamo nei tratti più impervi della salita.
Come Dio volle arrivammo in cima al colle anche se non ho memoria del tempo che impiegammo per arrivarci, ma una volta arrivati, dopo uno spuntino consumato sotto le mura del castello, un provvidenziale riposino e una fugace visita al suo interno, c'incamminammo sulla via del ritorno proprio mentre stava per iniziare un tramonto incredibile.
Arrivammo alle nostre tende a notte fonda stanchi ma felici, addormentandoci come sassi.
Alla data prefissata, di prima mattina sentimmo in lontananza il rumore scoppientante del camioncino che si stava avvicinando con alla guida il nostro uomo.
Non ci volle molto tempo per caricare, dare un ultimo sguardo a tutto ciò che si sta va lasciando non senza un leggero velo di malinconia, che non ci abbandonò per tutto il tempo del traballante viaggio di ritorno. Arrivammo all'inbarco appena in tempo utile per caricare ed imbarcarci, mettendo così la parola fine a questa bella vacanza.
(Scritto nell' Agosto-Settembre 2012 )
L'Isola del Giglio